
Foto Getty
In libreria
Roy Chen è tanto bravo che non avrebbe bisogno degli eccessi che propone
Uno scrittore versatile che sa plasmare il destino dei suoi personaggi con uno spartito che non si ripete mai. Eppure sembra essere troppo spesso tentato dall’umorismo, ma sovrabbondare non è arricchire
Roy Chen è uno di quegli scrittori del tipo: avercene. Avercene di così generosi narrativamente. Avercene di così spigliati nel raccontare il presente. Avercene di così profondi nell’intuizione e nella costruzione delle storie. “Il grande frastuono” (Giuntina, pp. 274, euro 20) non fa eccezione. Avercene: è generoso, spigliato e profondo, e ci racconta tre donne – la giovane Gabriela col suo violoncello, la quarantenne Noa con la sua irrefrenabile chiacchiera, la nonna Tzipora e il suo orecchio, in un certo senso, assoluto – alle prese con la loro giornata joyciana. Sì, James Joyce aleggia: la nonna ne fu la prima traduttrice e, quando lavorava, imponeva alla figlia Noa di tacere e azzerarsi, affinché le riuscisse di “ascoltare” la sua voce irlandese per poterla tradurre in ebraico (“scorge una copia consunta di ‘Finnegans Wake’, il libro che è stato la sua unica Bibbia per anni”); e aleggia perché ciascuna di loro vive la propria Odissea di ventiquattro ore attraverso un flusso di pensiero che consegna al lettore la forma che le loro parole (silenziose o borbottate al punto da scatenare equivoci) danno alla realtà. E la realtà è la Tel Aviv di oggi, il suo trambusto, le sue comparse, il suo esterno giorno.
Ma Roy Chen è anche un drammaturgo. Forse, soprattutto un drammaturgo – stabile presso il teatro Gesher nel cuore di Giaffa ma noto anche in Italia: a novembre il teatro Parenti ha portato in scena il suo “Chi come me”, per la regia di Andrée Ruth Shammah – e sulla pagina porta sempre le voci. La sua letteratura è, in un certo senso, una letteratura orale. Crea e ricrea suoni, canta inflessioni, diesis e vezzi di un parlato quasi sempre torrenziale, vitale, estraneo alla letterarietà, il che lo rende lo scrittore versatile, credibile e saporito che è, sensibile alle forme in movimento, con un talento alla Grace Paley per trasformare la pagina in un luogo più vivo della vita – Chen condivide con Paley, di famiglia ebrea, la Russia: origine familiare per Paley, lingua della rivolta personale (studiata da autodidatta) per Chen, che ha tradotto Puskin, Gogol, Dostoevskij, Bunin e ovviamente Charms, uno splendido sbandato benedetto dal Dio dell’assurdo.
Roy Chen sa plasmare il destino dei suoi personaggi con uno spartito che non si ripete mai – avvincente e poetica la vicenda di Gabriela che peregrina col suo violoncello, un orso di legno da tre chili; vivacissima e martellante quella della logorroica Noa, prigioniera per un giorno del silenzio e ostaggio della meditazione Vipassana; grottesca e sapienziale quella di Tzipora, cui Dio parla dopo una sbronza chiedendo a lei, proprio a lei, atea radicale, di diventare profetessa (il rischio di diventare virale su internet è dietro l’angolo, e c’entrano un cinese, un pipistrello e un’epidemia imminente).
Tuttavia Roy Chen sembra essere troppo spesso tentato dall’umorismo. Non che sia un difetto in sé, ma a volte, leggendo “Il grande frastuono”, si ha come l’impressione che lo scrittore ammicchi troppo, si conceda boutade riuscite e altre meno, e si soffre un po’ di claustrofobia. Come se la storia dovesse sempre andare a finire lì, a chiudersi e blindarsi lì, in battute o deformazioni narrative che hanno a che fare con la stand up o la performance. Viene in mente “Il lamento di Portnoy”, che lo stesso Philip Roth definì secondo questi schemi, ed è un bell’antecedente, ma viene il dubbio che Roy Chen non si fidi o di chi legge (ma non è uno scrittore supponente, pertanto non sembra qui la questione) o di ciò che racconta (ma dovrebbe, perché certe sue intuizioni sono invidiabili) al punto da dover dopare la pagina con trovate, conigli dal cilindro, eccessi logorroici, baldanza in eccesso. E va bene, penserà qualcuno, è una critica da incontentabili, è come lamentarsi perché al ristorante hai mangiato tanto. Vero. Però sappiamo come va, coi romanzi: dire di più non è sempre dir meglio. Sovrabbondare non è arricchire. E il lettore – forse – non ha bisogno di essere continuamente sazio.