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Baby, ti chiameremo distopia

Maurizio Crippa

Il pronatalismo americano super tecnologico dell’èra Maga. I risvolti eugenetici e di potere economico. La demografia. Quelle sottili assonanze fra il transumanesimo della Valley, il rifiuto (progressista) di fare figli e le minacce di Vance

Lo chiameremo Champion. Ma a differenza della stralunata e molto attuale parabola familiare disegnata da De Sica cinquant’anni fa in Lo chiameremo Andrea, Mariangela Melato e Nino Manfredi che cercano disperatamente di avere un bambino ma non riescono, qui la gravidanza non isterica andrà senza dubbio a buon fine: i test sul “rischio poligenico” ormai possono escludere perfino la futura schizofrenia. E allora perché non farne tanti, programmati e subito di figli? “Voglio più bambini negli Stati Uniti d’America. Voglio più bambini felici nel nostro paese”, ha incitato JD Vance alla Marcia per la vita il 24 gennaio, subito prima di dire che l’Europa è una vecchia carretta destinata all’estinzione. Ma Vance è un ultra cattolico, i figli si può immaginare li abbia procreati in natura, se non en plein air. Non come il suo arciamico arcirivale Musk, che i figli li chiama X Æ A-XII oppure Exa Dark Sideræl. E neanche come Malcolm e Simone Collins, la coppia di Filadelfia (ma lei aveva fatto successo come startupper nella Valley, prima di scegliere un look da madre Amish e trasferirsi in una fattoria). La coppia è ormai famosa, è diventata un riferimento globale del pronatalismo dell’èra Maga e i figli li chiamano appunto Champion “perché il suo test poligenico per il quoziente intellettivo è alto, al 98esimo percentile”, oppure Torsten Savage e Titan Invictus


Gli indicatori demografici dell’Istat hanno certificato un nuovo record negativo della fecondità in Italia nel 2024: 1,18 figli per donna, inferiore anche al minimo storico del 1995, che era  di 1,19. Lo scorso anno sono nati in Italia  370 mila bambini, il 2,6 per cento in meno sul 2023. L’inverno demografico è diventato glaciazione perenne. All’arrivo periodico di questi dati, ma capita un po’ anche negli altri paesi, le reazioni sono di due tipi, entrambe sterili (ops!). Da un lato molto allarme desolato e appelli alla politica e ai giovani per invertire la tendenza (il nuovo Piano Roccella per la famiglia). Dall’altro un mondo variegato e forse nel complesso maggioritario, fatto soprattutto di giovani, per cui la risposta è: nessuno può imporci politiche nataliste. E se in Russia Putin, nel suo stile, vara leggi per punire chi faccia professione di idee childfree, in Italia persino la molto più innocua proposta del “Fertility day” di Beatrice Lorenzin fu sommersa da risate e indignazione. Negli Stati Uniti invece, da qualche tempo, la risposta è un’altra. Ma qui il discorso si fa culturale, apre interrogativi incerti e scenari dispotici.


Filadelfia. I Collins, con il loro look techno-country e la loro organizzazione pronatalist.org sviluppata all’interno della Pragmatist Foundation sono diventati un punto di riferimento, e la punta avanzata, di un movimento più ampio e i portabandiera di una visione del mondo (occidentale). Su Raitre, “In mezz’ora” di Monica Maggioni il 30 marzo scorso ha proposto un lungo servizio su di loro, “Un figlio all’anno contro il crollo demografico: ecco i ‘pronatalisti’ Usa”. “Sono Simone Collins, sono la moglie di Malcolm Collins” dice lei con una bimba nel marsupio sulle spalle. “E’ la madre dei nostri quattro figli, spero presto cinque” dice Malcolm, il cui fratello Miles è nello staff Doge di Musk. Aria allegra, un po’ sovreccitata, e scelte radicali: “Ho lavorato in una start up della Silicon Valley e sono cresciuta in quella cultura. Il mio obiettivo era vivere da sola per sempre. Oggi lotto per una causa opposta… Credo che la mia bambina sarebbe confusa”. Niente retorica hillbilly. “Il movimento pronatalista ha lo scopo di richiamare l’attenzione sul crollo dei tassi di natalità e le conseguenze cui andiamo incontro: il crollo del nostro mondo, del sistema economico globale e di quello geopolitico”. Scenari da Mad Max? No, ma “rischiamo di fare la fine degli indigenti del Sudafrica: vivere nella violenza, nel pericolo e senza elettricità”.


Nel mondo utopico-distopico del nuovo pronatalismo americano – Trump non è un addict, ma ha varato misure per favorire il più possibile la fecondazione in vitro e contro l’aborto; Musk è un natalista sperimentatore, Vance un natalista tradizionale e molti ceo del Big Tech si stanno allineando, come Sam Altman di OpenAi – si sommano due fattori diversi. Da un lato le credenze Maga: difendere la civiltà occidentale (se non bianca, comunque di quelli che stanno da questa parte della “linea del colore”, come la chiama Pankaj Mishra) e la sua ricchezza ad alta tecnologia da una possibile “sostituzione etnica” che sarà invece inevitabile per i paesi come l’Italia travolti dal nullismo demografico. Dall’altra c’è una spiccata influenza del pensiero transumanista, quando non direttamente eugenetico, del futuro dell’umanità.


Simone. “Ho fatto sette cicli di fecondazione in vitro. Pianifico le mie gravidanze in modo un po’ aggressivo, ma non pericoloso. Sono incinta per nove mesi, mi riposo per altri nove mesi e poi resto incinta di nuovo”. “Prima dell’impianto dell’embrione faccio un test genetico molto avanzato che assegna agli embrioni un punteggio. Sono incinta di un embrione che abbiamo scherzosamente chiamato il Campione perché il suo test poligenico per il quoziente intellettivo è alto, al 98esimo percentile”. “Abbiamo queste informazioni perché dai test che abbiamo fatto fare al laboratorio Genomic Prediction otteniamo i dati grezzi, che facciamo poi elaborare da altre società. Così valutiamo anche il rischio poligenico per l’altezza, l’intelligenza e altri fattori tra cui la depressione, l’incapacità di gestire lo stress o l’ansia”. Va da sé che si scelga l’embrione migliore (la “cultura dello scarto” di Papa Francesco sembra davvero appartenere a un’éra geologica perduta). “Non possiamo dire il nome del prossimo figlio perché se no gli rubano il Google account”. 


Questa visione del futuro spaventa, almeno superficialmente, molto e molti: non solo gli umanisti tradizionali. Spaventa perché è considerata “di destra” – e lo è – al limite del razzismo. Ma la storia è lunga. Altered Carbon è una serie tv del 2018 (arcaica?) il cui tema – che i Collins sembrano dare per acquisito – è un mondo in cui i ricchi potranno permettersi la trasmigrazione del proprio chip cerebrale attraverso una nuova tecnica chiamata “Immagazzinamento digitale umano” in corpi (creati, fabbricati) per sempre giovani. Una immortalità virtuale. Mentre il resto di una popolazione schiava e impoverita invecchierà come zombie. Non un plot inedito, con il futuro cyborg conviviamo felicemente dai tempi di Neuromante di William Gibson. Ma la storia dell’eugenetica è più antica, novecentesca. Anni fa Marco Paolini ha raccontato, uno dei pochi ad averlo meritoriamente fatto, in Ausmerzen la soppressione, lo “sradicamento”, attuata dal nazismo tra il 1939 e il ’41 di decine di migliaia di bambini e adulti disabili o malati di mente. Il programma Aktion T4. Ma ricordava anche, nel libro, che “il lungo cammino dell’eugenetica è anche progressista”. “I dottori dell’eugenetica alla fine della Bell’époque prendono due strade per migliorare il mondo: per gli inglesi si trattava di ‘to eradicate illness’, sradicare la malattia. Per i tedeschi si trattava di ‘ausmerzen’: sopprimere i deboli”.


Parlare di eugenetica per le tecno-gravidanze forzose dei Collins, o per esami genetici e pre-impianto ormai diventati standard, può essere eccessivo. Ma che la parola abbia cessato di essere tabù, tra gli scienziati, i filosofi e nel discorso comune è un fatto. La capacità di intervento di scienza e tecnologia nei meccanismo della procreazione è pienamente accettata. Così lo spavento per il natalismo (razzista) figlio della Silicon Valley cessa quando quelle idee si avvicinano a una mentalità comune e diffusa che riguarda la procreazione o il rifiuto della natalità come fino a ieri è stata conosciuta. Ciò che definiamo pensiero progressista non è meno determinato dalla tecnologia, come ricordava Paolini. In un magnifico articolo di qualche anno fa per il Foglio Ritanna Armeni aveva parlato del consapevole e compiuto rifiuto (superamento?) della maternità da parte delle “cattive ragazze”. Ma se la procreazione naturale non ci sarà più, intuiva alla fine, ci sarà nel futuro qualcosa che “non è solo distopia. L’utero in affitto, lo sfruttamento di donne povere, la divisione fra mogli e madri, la sottomissione delle seconde al potere della ricchezza sono dietro l’angolo”. Fa parte di una visione che il pensiero progressista accetta, poco di diverso dai Collins. Il rifiuto riguarda il natalismo imposto, non la natalità tecnica. La Gpa è sostenuta da tutti i progressisti – difficile pensare avvenga senza test e selezioni genetiche – mentre i giovani, e certo non solo di sinistra, hanno paura della natalità naturale. 


Un ottimo recente numero monografico del magazine Vita, dedicato a “Perché non vogliamo figli”, ha raccolto voci di giovani di ogni orientamento. Carlotta “Lotta” Sarina, 22 anni, artista climatica, spiegava “questa visione di crescere un figlio in modo collettivo, che non ricada solo sulle spalle di due persone, la trovo meravigliosa… Io non voglio avere figli biologicamente miei: quando non avrò più le forze di lottare come attivista climatica andrò a vivere in un ecovillaggio e adotterò”. Una Collins farm altrettanto utopistica, ma contro “l’antropocentrismo”. Anche uno scrittore maschio, di sinistra e di altra generazione arriva in quei paraggi. Intervistato qualche giorno fa dalla Stampa sulla maternità, Domenico Starnone ha detto: “Oggi finalmente la tecnologia ha sostituito il corpo vivo delle donne. Le ha liberate dell’onere della maternità e le ha espropriate della più straordinaria e tremenda tra le loro prerogative”. E sulle persone nate con tecniche procreative: “Non sopravvaluterei l’origine in quanto discendenza e sangue”.  


Insomma non è la tecnologia a fare paura, anzi la techné è ben accetta, basta che sia fuori da ogni visone tradizionale e di genere. Come afferma la scrittrice e attivista neo femminista Jennifer Guerra a proposito delle (famigerate) politiche nataliste del governo Meloni: “La direzione è chiara ed è quella di un sistema che premia non solo chi fa figli, ma chi ne fa tanti”, “forse sarebbe anche ora di smettere di pensare ai figli come ‘contributi’ per il futuro, come risorse per pagare le pensioni o fermare l’inesistente ‘sostituzione etnica’”. Di recente, su Substack, Guerra ha invece scritto in sostegno di “un discorso femminista sulla procreazione medicalmente assistita”. In Italia, dice, “oltre il 4 per cento delle nascite avviene grazie alla procreazione medicalmente assistita, una pratica molto più comune di quanto si pensi, ma di cui ancora si fa fatica a parlare”. Una femminista che non la pensa come lei, Marina Terragni, tempo fa ha sintetizzato: “La maternità naturale è di destra, quella biotech è di sinistra perché pensata come un diritto e non subita come destino: la diatriba su questo tema tra femminismo radicale e transfemminismo si potrebbe sintetizzare in questo modo. E’ tutt’altro che nuova ma si è radicalizzata. Anche perché il contesto è molto cambiato: un conto è il baby boom, un altro le nascite al minimo storico”. 


Ma non è il tema di questo articolo, la deviazione serviva solo per indicare che il punto di vista sulla bio-tecnologia (o la biopolitica?) anche applicata alla natalità (“Il gravissimo dovere di trasmettere la vita umana”, profetizzava un grande Papa del secolo scorso) varia per posizioni politiche, ma non in essenza. Oggi è lo scenario tecnologico, politico e soprattutto economico a cambiare i termini. Le idee transumaniste, la superiorità della procreazione artificiale, la tecnica che cancellerà le malattie, l’immortalità cui apertamente aspira Peter Thiel – non a caso grande finanziatore di queste iniziative nate nella Valley – non sono idee nuove. L’eugenetica alla Altered Carbon non sarebbe spiaciuta ai nazisti, come sembra non spiaccia ai figli della Silicon Valley. Il co-fondatore di Skype, Jaan Tallinn, ha donato  500 mila dollari alla fondazione dei Collins: “Lui è decisamente pro-natalista”, “l’intera Casa Bianca in questo momento è piena di pronatalisti, perché tutti noi capiamo che alcuni paesi si estingueranno e la loro popolazione verrà sostituita”. Il ceo di OpenAI Sam Altman ha investito in startup di tecnologia riproduttiva e vuole progettare ovuli umani a partire da cellule staminali. La differenza con i pro-life tradizionali, soprattutto religiosi, cultori delle famiglie numerose, è che in questo nuovo natalismo c’è tutto di non naturale. Innanzitutto il peso economico. Il laboratorio Genomic Prediction ha tra i finanziatori Sam Altman, e ha raccolto in breve tempo fondi per 24 milioni. “Nei test politecnici siamo i primi al mondo a sviluppare questa tecnologia – hanno spiegato nel servizio proposto dalla Rai – Abbiamo iniziato nel 2017 in un laboratorio di startup di biotecnologie”. “Ogni esame genera un punteggio, così i genitori possono scegliere quello col rischio minore”. “Ovviamente, abbiamo esaminato il QI”,  hanno detto Malcolm e Simone al Guardian dei loro figli programmati. Con tanto amore, ma senza difetti. Ma questo è ormai pacifico per tutti, tranne per chi parta da una convinzione solidamente religiosa.


E’ interessante notare che, pur nell’entusiasmo non ponderato con cui il cattolicesimo conservatore europeo ha accolto l’avvento di Trump e l’antiabortismo hillbilly del Vance di Monaco, la parte più intransigente del mondo pro-life abbia espresso dubbi sul pronatalismo Maga. Come ha scritto la rivista il Timone, settembre 2024: “Silicon Valley, quando la lotta alla denatalità puzza di eugenetica”. La rivista citava Lancet: entro il 2100, 183 dei 195 paesi del mondo vedranno il loro tasso di fecondità scendere al di sotto di 2,1 figli per donna, soglia limite del “tasso di sostituzione”.

Ma divideva in due il campo di chi si oppone al declino demografico: “Due gruppi, i quali sembrano condividere il medesimo intento (ma così non è): i pro famiglia e i pronatalisti.  Partiamo dal fatto che i secondi sono ben radicati nell’ambiente della Silicon Valley… In realtà, provenendo da élite che comunque non avrebbero alcun problema finanziario, si rende più manifesta la faccia inquietante del pronatalismo: l’importante non è quanti si riproducono, ma chi si riproduce”. “Per dirla in altre parole, più bambini ma di un certo tipo. Oltre a ricordare – neanche troppo velatamente – un certo atteggiamento eugenetico, tale che sarebbe bene lasciarsi alle spalle”. Ha detto Malcolm Collins a Business insider: “L’umanità non è in una posizione molto buona oggi. E penso che, se nessuno risolve il problema, potremmo benissimo scomparire”. Negli Stati Uniti il 75 per cento delle cliniche che offrono servizi di screening genetico permettono alle coppie di sequenziare più del 99 per cento dei genomi di un embrione. Il finanziamento alle società del settore è stimato in miliardi di dollari. Molti generati dalla Valley.


Del resto il tema del calo della fertilità mondiale è anche un tema progressista, o perlomeno un tema cui è molto sensibile “l’ideologia californiana” (per dirla con Richard Barbrook e Andy Cameron) che ha guidato la trasformazione globale sociale degli ultimi decenni. Basta pensare al ruolo di un filosofo, svedese ma docente a Oxford, come Nick Bostrom, star della Silicon Valley, in passato dubbioso sulla Ai ma favorevole al “miglioramento della specie umana”. Bostrom è sostenitore del transumanesimo. Ha fondato l’influente Future of Life Institute, è anche un teorico della possibilità di replicare per via digitale il cervello umano ma ha persino coltivato l’idea assai distopica che, forse, viviamo tutti nella simulazione digitale di qualcun altro. 


Tutto questo progressismo a tratti immaginifico, a tratti minaccioso della Valley si è rovesciato, o ribaltato – al pari delle idee ultra liberiste in economia o contrarie alla “inservibile” democrazia – nel natalismo a tendenza eugenetica e razzista, influenzato anche da teorie come quelle dell’Illuminismo oscuro del filosofo inglese Nick Land, uno dei guru di riferimento della Alt-Right americana e profeta di una accelerazione tecnologica che porterà al superamento della democrazia. Tutto questo fa paura, e pour cause, tanto più per il fatto che queste idee un tempo marginali oggi sono al potere alla Casa Bianca e hanno il sostegno della più grande finanza tecnologica del mondo. Ma natalismo e antinatalismo tecnologici hanno in realtà più radici in comune di quanto si possa pensare. Antropologiche e culturali. La sfida, per quanto ancora nebulosa e distopica come una serie televisiva, non è sulla techné, ormai la natura è superata. Ma su che tipo di futuro generare.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"