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l'installazione

Gio Ponti e il progetto incompiuto di girare un “Enrico IV”

Fabiana Giacomotti

Agli inizi degli anni 40 il milanesissimo architetto voleva trarre un film dal dramma di Pirandello con Louis Jouvet e la regia di Anton Giulio Bragaglia. Lo storyboard di venticinque metri di carta da spolvero esposto a Parigi e poi Milano. Il design come forma d’arte totale

Scriveva spesso Gio Ponti, milanesissimo promotore di mode e arti, che tra i bisogni primari dell’uomo, oltre il cibo, la casa, il vestito, c’era la favola. Per dirla con Ken Loach, il pane e le rose. Le rose di Ponti, però, possedevano quella speciale fantasia rigorosa che è propria alla natura. Il disordine creativo non faceva per questo uomo dall’aria gioviale che seppe cavalcare ogni epoca politica senza irritare nessuno perché, in fondo, l’unica cosa che gli interessasse davvero era far vivere meglio la gente sotto ogni aspetto e in ogni momento della giornata, anche a teatro e perfino al cinema, l’unico aspetto della sua parabola creativa eclettica che preparò, minuziosamente come ogni altro progetto, ma che non mise mai in pratica. Lo storyboard parziale di un film tratto dall’“Enrico IV” di Luigi Pirandello, che Ponti avrebbe voluto girare con Louis Jouvet e la regia di Anton Giulio Bragaglia agli inizi degli anni Quaranta del Novecento, venticinque metri di carta da spolvero suddivisi in sei spezzoni e avvolti in una scatola di legno, venne esposto per la prima volta al MAD di Parigi in occasione della grande retrospettiva “Tutto Ponti. Gio Ponti archi-designer”. Per il Salone del Mobile arriva a Milano, contestualizzato in un documentario diretto da Francesca Molteni e un’installazione a cura degli studenti della Naba, guidati dalla grande scenografa Margherita Palli. Il documentario dura pochi minuti, una voce fuori campo ne legge le note e gli appunti dell’autore, punteggiando i cambi di scena con pause di buio, ma fra quei disegni e quegli appunti, scritti a mano con la grafia chiarissima e un po’ tondeggiante della persona aperta, nel lessico banale di oggi si direbbe “solare”, c’è tutto il suo pensiero, la sua attenzione per ogni aspetto di quella speciale rappresentazione teatrale che è la vita stessa, e dopotutto, nessuna pièce teatrale più dell’“Enrico IV” avrebbe potuto adattarsi meglio a quell’idea di arte totale che aveva Ponti espresso fino dagli anni Venti in una serie di saggi critici. 

Fin dall’inizio degli anni Venti, laureato da poco, aveva partecipato infatti alle riunioni del circolo culturale Il Convegno e collaborato alla sua rivista, sulla quale scrivevano anche grandi innovatori come lo scenografo svizzero Adolphe Appia, che proprio attraverso quelle pagine si mise in luce in Italia, iniziando la collaborazione con Arturo Toscanini per la rappresentazione di “Tristano e Isotta” che debuttò il 20 dicembre 1923 al Teatro alla Scala. Nell’aprile dello stesso anno era apparso un articolo, firmato appunto da Ponti, che metteva in luce la progressiva diffusione delle “idee di spettacolo come unità artistica” e che indicava come il termine francese “mise en scène” non andasse inteso solo come una meccanica disposizione del testo nello spazio, una trasposizione fisica ma, piuttosto, come una sua rielaborazione. La riforma wagneriana aveva già non solo ipotizzato ma anche messo in pratica l’unione delle arti come fondamento del teatro, lo stesso Appia notava che “scultura, pittura, architettura nel teatro appartengono allo spazio, mentre testo e musica appartengono al tempo e vi si svolgono”. Ponti, innamorato dei “Ballets russes” di Diaghilev che avrebbero sempre influenzato i suoi costumi per il teatro (pensiamo solo al “Pulcinella” di Stravinsky e all’“Orfeo” di Gluck, con i loro colori primari) aggiunge a questa visione, nella quale si ipotizzava dunque una dicotomia, risolvibile solo con un succedersi di forme nello spazio, una nota importante, e cioè che l’armonia della visione deve essere una caratteristica fondamentale per la composizione di uno spettacolo, così come lo è nella composizione degli spazi architettonici. Questo punto di vista emerge molto chiaramente nello storyboard di quel film, di cui esistono due versioni proprio a testimonianza del valore che Ponti gli attribuiva: la prima data 25 ottobre 1942, cioè un giorno dopo il primo bombardamento diurno di Milano e la seconda 19 aprile 1943: il Filodrammatici e il Teatro alla Scala sarebbero stati colpiti dalle bombe pochi mesi dopo, insieme con i luoghi del suo lavoro, a lui cari: la Pinacoteca di Brera, i cui dipinti erano stati già tratti in salvo e posti al riparo fuori Milano da Fernanda Wittgens come lo stesso era accaduto con le opere della Galleria d’Arte Moderna a Roma, salvate da Palma Bucarelli. Questo film, questa espressione di vitalità, di voglia di produrre bellezza e intrattenimento in un contesto drammatico ed estremamente pericoloso risulta ancora più dirompente se si pensa appunto al testo scelto, il primo che analizzasse i risvolti sociali e famigliari della pazzia e il rapporto fra l’uomo, la finzione e la verità. 

Dice Palli che “creare la scenografia di un testo teatrale, di un film, di un’opera lirica è come muoversi dentro un edificio, richiede senso dell’orientamento e attenzione a segni, simboli e significati”: Ponti non vedeva alcuna differenza fra arredi per la casa, anche creati da lui stesso: in questi anni, gli eredi o per meglio dire lo stesso nipote che cura i Ponti Archives, Salvatore Licitra, ha condotto una ricerca molto approfondita, in particolare nelle riviste “Domus” e “Stile” (ma fra poco parleremo anche di “Bellezza”), verificando come lampadari, sedute e spazi espositivi e domestici oggi molto noti avessero avuto nel palcoscenico il loro test sperimentale, prima di essere trasposti nel quotidiano. I sette lavori teatrali per balletto, prosa e lirica, ai quali Ponti si dedicò per oltre quindici anni, tra il 1937 e il 1954, in parallelo alle opere come architetto, sono l’ideale dimostrazione che disegnare un costume, scattare una fotografia, progettare un tavolo o un edificio rientrano nella medesima estetica, definendo la linea di continuità artistica che dovrebbe essere propria a ciascun architetto. Anzi, proprio questi lavori, lo apparentano ai maestri del Rinascimento ai quali guardava come a grandi ispiratori e sui quali si era modellato, definendosi “l’ultimo degli umanisti”. D’altronde, se fosse stato in vita alla fine dell’Ottocento, non ci sono dubbi che Leonardo, grande creatore di spettacoli e straordinario scenografo per la corte del duca di Milano, si sarebbe dato al cinema, esattamente come avrebbe voluto sperimentarlo questo uomo dall’aria spiritosa che fa parte della vita di tutti noi che viviamo a Milano più di ogni altro architetto, perché più di ogni altro, proprio come Leonardo, trovò mai disdicevole occuparsi di piccole cose, anche in senso letterale. 

“La costruzione della scena è questa”, scrive sul suo lunghissimo rotolo: “Panca, pavimento, boiserie intorno alle pareti, un trono, un baldacchino”. Ed ecco i segni, i simboli che differenziano il lavoro dello scenografo da quello dell’arredatore di scene: “Le porte devono sembrare un po’ stemmi (in senso tanto semiotico quanto reale, di intende, nda); l’anta sia un elemento d’effetto che fa da quinta. Lo spettatore vede dietro le pareti false”. Buio. E ancora: “I quadri di re e regina appaiono da ogni lato del trono. La macchina deve compiacersi di alcuni particolari”. La macchina da presa, la sua posizione, è ben segnata sul foglio: Ponti agisce, racconta e indica il set più da regista teatrale che da professionista del cinema, scorrendo le sue indicazioni la sua scarsa conoscenza del mezzo emerge in modo piuttosto chiaro, dopotutto un anno prima Orson Welles aveva distribuito “Quarto potere” e si preparava per quel capolavoro fotografico, prima ancora che filmico, che è “Il terzo uomo”. Non possiamo sapere se, da quelle inquadrature che indicano la conoscenza della scatola teatrale, più che del set cinematografico, sarebbe mai uscito un buon film: in fondo, quel continuum di singole inquadrature nelle quali mani e volti fluttuanti nel vuoto si alternano a prospettive singolari di interni domestici non ci dice abbastanza. Quello che, invece, sappiamo per certo, è che gli interpreti sarebbero stati vestiti con l’eleganza intelligente e spiazzante (“i valletti devono essere drappeggiati e atteggiati meravigliosamente come guardie svizzere del Papa”, “Giovanni deve indossare vestito vecchio con gran gioco dei mantelli che si gonfiano dentro e fuori dal sole”, “Frida e Matilde sono le rappresentanti di una moda-non moda”) dell’uomo che aveva progettato “Bellezza”, cioè la seconda rivista di moda più interessante del Novecento dopo “Lidel”. 

Nata “sotto gli auspici dell’Ente Nazionale della Moda e nel superiore interesse nazionale”, in quei primi Quaranta “Bellezza” accorpava il primo magazine fondato da Ponti dopo l’uscita da “Domus”, e cioè “Linea”, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto rappresentare “l’Harper’s Bazaar italiano”. Come scriveva in un recente saggio sull’attività editoriale di Ponti Cecilia Rostagni dell’Università di Sassari, l’obiettivo comune a questa testata, come a “Stile”, dedicata ad architettura e arredamento, e uscita per le edizioni Garzanti in più di settanta numeri fino al 1947, era di documentare l’alto livello delle arti e degli avvenimenti della vita italiana, con cronache di teatro e cinema, articoli di scrittori celebri, riproduzioni e tricromie di quadri e sculture, al fine di mostrare il gusto e il clima spirituale dell’epoca. La moda, soprattutto, non avrebbe dovuto essere raccontata alle lettrici come una semplice successione di fotografie e di modelli, ma in funzione del contesto artistico, sociale e civile italiano, che è quanto si sono sempre prefisse le testate di moda davvero rivoluzionarie, talvolta perfino riuscendovi (mantenere l’equilibrio fra i molti interessi interni ed esterni che fanno pressione su un vestito è incredibilmente difficile). “Il costume è il vivo specchio della civiltà. La civiltà è soprattutto un ordine interiore, umano, dello spirito e del cuore; esso però deve esprimersi e si esprime, con tre cose: il garbo, la grazia, la bellezza”, scrive nell’editoriale del primo numero, distribuito alla fine di gennaio del 1941. 

Con l’ente Nazionale della Moda fascista nato nel 1935, Ponti condivideva l’obiettivo di fare dell’Italia un centro di produzione e diffusione della moda pari se non superiore a quello di Parigi, che è un obiettivo per certi versi non superato nemmeno oggi. Non solo: dimostrando di essere perfettamente in linea con il grande teorico dell’architettura (e dunque dell’abbigliamento) Bernard Rudofsky, che peraltro collaborava con “Domus”, già nel 1933 Ponti aveva ipotizzato che architettura e moda si incontra si incontrano nell’essere entrambe espressione dello stile di un’epoca, del suo costume, con la differenza che l’architettura “sorpassa le espressioni d’arte e del costume che l’hanno di volta in volta creata”, facendo “di questi fenomeni umani transitori un’espressione vivente solo in quanto eterna”, mentre la moda “premuore al fenomeno generale ed umano che la genera”, facendo “di un fenomeno eterno una espressione vivente solo in quanto transitoria”. E’ un peccato che “Bellezza”, osteggiata fin dal debutto e nonostante l’evidente allineamento di Ponti con gli obiettivi del regime, non sia arrivata neanche alla fine della guerra: Ponti si dimise dalla sua direzione alla caduta del fascismo. Ma se attraverso le sue osservazioni possiamo immaginare come sarebbe stata la sua moda (Ponti designer?), sappiamo invece e benissimo che gli abiti che l’architetto amava disegnare sono in realtà costumi, non diversamente da quelli disegnati da altri interpreti della società-della-moda come, oggi, sono Jonathan Anderson e Alessandro Michele. 

Quelli di Ponti sono costumi che paiono ritagliati nella carta: costumi totali, in cui la persona scompare, dalle mani sempre coperte dai guanti, ai capelli, sempre coperti (e ben sappiamo che piacerebbe ottenere lo stesso risultato anche a Giorgio Armani, innamorato delle linee, profondamente distratto dai capelli femminili che svolazzano). Sono costumi essenziali, ideati per essere visti da lontano, appunto teatrali (il cinema richiede costumi dettagliatissimi, il palcoscenico no) con nulla di materico né, tantomeno, di storico. Ponti è un precursore dello stile di Danilo Donati. Della sartoria teatrale, amava l’improvvisazione: lo scrupolo che affliggeva Piero Tosi, la mania del dettaglio, non l’avrebbe afflitto mai. Come ci ha detto poche ore fa Robert Wilson, in arrivo a Milano per un’installazione di luci e musica attorno alla Pietà Rondanini, quello che ho imparato da Ponti è che tutto si risolve fra due linee: la linea retta e la linea curva. Il mondo sta in questa scelta.

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