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(1933-2025)

In ricordo di Roberto De Simone, il colto e il popolare

Francesco Palmieri

Non c'è chi, più di lui, abbia dato, nell'ultimo mezzo secolo, un contributo così cospicuo alla cultura napoletana in tutte le declinazioni. I funerali in Duomo e le bandiere a mezz'asta, volute dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, sono un omaggio a cui si aggiungono tante voci commemorative 

La prammatica degli addii impone di citare al passato Roberto De Simone, ma chi ne ha conosciuto l’opera e la persona ricorda oggi per il futuro che s’affacciò grazie al maestro su un presente atemporale dove le secolari vicende di Napoli, la storia visibile e invisibile diventavano contemporanee. O erano forse spettatori e lettori, fatti ostaggi per magia, a ritrovarsi contemporanei di Paisiello, Pergolesi, della Cenerentola di Basile che racconta al principe una verità remota così prossima alla nostra. E’ grazie a De Simone che fummo e resteremo incantati dai prodigi di Virgilio e dalle devozioni alla Vergine nei culti sgretolati dal tempo. E’ seguendo il maestro nei suoi versatili percorsi di folletto barocco, serissimo nel gioco, che finimmo rapiti per sempre in un’autobiografia narrata solo nel 2014 nel più bel libro sulla città durante la guerra. Lo intitolò “Satyricon a Napoli ’44” ed è una contronarrazione di “Napoli milionaria!” senza i melismi pedagogici eduardiani, perché per De Simone il teatro e la letteratura non recano in calce la morale ma guidano attraverso i riti, i misteri, l’irruzione dei sogni e la potenza di una lingua e una musica che preservano il “c’era una volta” senza nostalgie. Perché, se si sa raccontare, tutto ritorna vivo.


Bambino prodigio al pianoforte nel Conservatorio di San Pietro a Majella di cui sarebbe diventato direttore; studioso delle tradizioni campane; direttore artistico del Teatro San Carlo dove riportò i gioielli del Settecento napoletano; fondatore della Nuova Compagnia di Canto Popolare; autore e regista teatrale, la sua fama s’irradiò oltre i confini con “La Gatta Cenerentola”, che debuttò al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1976. Seguirono numerose opere, fino alle ultime non rappresentate “L’oca d’oro” (Einaudi, 2019) e “Dell’Arco Giovanna d’Arco - Mystère cinematografico per musica” (Colonnese, 2024), in un autunno della vita che non è mai diventato inverno a dispetto dell’età (era nato nel 1933). Non c’è chi abbia dato, nell’ultimo mezzo secolo, più cospicuo contributo alla cultura napoletana in tutte le declinazioni, con una visione complessiva che integrava i pezzi sparsi rinvenendo tracce dove altri si smarrivano. Ne è un esempio il libro sul presepe popolare, (ovviamente) non più ristampato e ormai oggetto di collezione, che spiega l’allestimento della Natività come “memoria di un sogno” in cui i numeri della tombola sono “il sogno d’una memoria”.


Alla città il maestro ha dato più di quanto abbia ricevuto. I funerali in Duomo che si terranno mercoledì e le bandiere a mezz’asta volute dal sindaco Gaetano Manfredi sono un omaggio cui s’aggiungono voci commemorative prima laconiche o mute, o che De Simone ascoltava col fastidio comprensibile di chi ridiede parola all’abate Galiani e ad Amadeus adolescente nei “Prolegomeni al Socrate immaginario”, a Eleonora Pimentel Fonseca ne “L’Opera buffa del Giovedì Santo”, ai maestri di cappella, ai beati portentosi, al popolo dei fondaci e delle campagne che celebrava il Carnevale ripetendo inconsapevole riti millenari. Collaborò con De Filippo ma non ne amò il teatro (“L’oca d’oro” è dedicata alla “sdegnosa ombra” di Eduardo), comprese l’importanza di Pino Daniele ma consentì di riscoprire quella di Pergolesi (dal “Flaminio” a “Lo frate ’nnamorato”), scovò in un barbiere il timbro superstite dei “posteggiatori” e lo incise, riscrisse classici musicali ne “L’armonia sperduta” e in “Canti della dimenticanza”, firmò un Requiem per Pasolini e il concerto “El Diego” “per Maradona e orchestra”. Al cospetto di san Gennaro si chiude questa “favola in musica”. Sfarzosa eredità senza eredi.

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