Caravaggio 2025, mostra alle Gallerie Nazionali di arte antica Barberini Corsini Roma (LaPresse)

La mostra

Caravaggio, il mendicante di luce davanti al quale si può stare solo in silenzio

Claudio Sagliocco

Tutti lo adorano. Il suo successo si deve sicuramente agli studiosi che lo hanno rivalutato e che gli hanno dedicato articoli, saggi e libri. E pensare che all'inizio del Novecento era quasi uno sconosciuto

Nessun altro pittore gode oggi di un consenso tanto ampio, unanime, smanioso e viscerale come Caravaggio. Tutti lo adorano, il giovane adolescente in odor di ribellione, l’adulto che crede di capirlo dandosi un tono e l’anziano che ne percepisce fascino e vetustà. Studiosi e appassionati, cultori o curiosi, tutti ne fanno un gran parlare. In Italia è diventato argomento di conversazione sul treno, commenta stupito Pierre Rosenberg, in coda alle poste o in attesa di una rasatura dal barbiere: “Ah Caravaggio, il suo uso della luce! Che realismo!”. E pensare che a inizio Novecento era quasi un perfetto sconosciuto, un nome poco significante nell’infinito zibaldone della storia dell’arte. A cosa si deve quindi questo successo universale? Certamente agli studiosi che lo hanno rivalutato dopo alcuni secoli di dimenticanza, non solo Roberto Longhi, ma anche Lionello Venturi, Hermann Voss e altri, che gli dedicarono articoli, saggi e libri. In quegli anni tra i due grandi conflitti mondiali la pittura del Merisi rimase però argomento relegato alla china di puntuti studiosi, per divenire improvvisamente popolare nel 1951. Il ruolo della mitica mostra milanese curata da Longhi a Palazzo Reale è stato decisivo, detonante per lo scoppio di quella che sarebbe diventata nei decenni successivi una vera e propria mania caravaggesca.

Con le macerie della guerra ancora fumanti, a Caravaggio fu applicato il filtro neorealista, immaginandolo come un Rossellini che prendeva i suoi attori dalla strada, o un Pasolini sedotto dai bassifondi romani in cerca di procaci ragazzetti di vita (già Federico Zeri accomunava i due personaggi scrivendo che “c’è una forte affinità tra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio perché in tutt’e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi”). Così il Merisi divenne un pittore proletario, anticonformista, maledetto, “lercio e irregolare” (che longhismi!). Il suo maledettismo, che ancora piace in maniera smisurata, è stato attenuato negli ultimi decenni da numerosi e accurati studi che hanno ricondotto l’artista agli ambienti pauperistici della Chiesa di inizio Seicento, sottolineando anche la sua cultura figurativa e testuale. Se ieri erano gli stessi critici a reagire a queste nuove proposte interpretative sulla figura di Caravaggio – Brandi nel 1980 scriveva che “neppure a occhi chiusi va accolta però l’ipotesi, assai accreditata negli ultimi tempi, sul generale sottofondo allegorico di tutti i dipinti del Caravaggio, comprese le scene di genere, nonché la supposizione di intenso sentimento religioso, smentito da tutto il suo comportamento e da episodi riportati da fonti degne di fede, e che dovrebbe fare del Caravaggio non si sa se un cattolico, un protestante, un filippino o un agostiniano” (Disegno della pittura italiana) – oggi è una larga parte del pubblico a non andare oltre alla figura del giovane genio della pittura tutto sangue, risse, vino e prostitute. Certamente è innegabile il suo temperamento riottoso e sanguigno, confermato da tutte le fonti antiche, ma il reiterato accanimento con cui si continua a insistere sulle vicende giudiziarie, sull’omicidio (o del pernicioso incidente tennistico), leggendo la sua intera opera come un riflesso della biografia è riduttivo se non avvilente, come quando si insiste sulle molteplici, dubbie, promiscue e multiformi sue sessualità. 


Ed ecco che una mostra a Roma, importante e ambiziosa (“Caravaggio 2025” curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon), fornisce un’occasione preziosa per tornare a vedere Caravaggio, spogliandolo di tutte le inutili superfetazioni. Finalmente Michelangelo Merisi, senza caravaggeschi, senza seguaci, imitatori o epigoni, senza copie o croste da marché aux puces. Ventidue opere del pittore lombardo, più una dubbia (il Narciso) e una nuova attribuzione, il chiacchieratissimo “Ecce homo” madrileno, sulla cui autografia quasi tutti i principali studiosi sono concordi. A Palazzo Barberini si ripercorre così l’intero arco della sua esistenza, dalla prima all’ultima opera conosciuta. Dal giovinetto mondatore di frutta e quello malaticcio in veste di Bacco (Caravaggio si identifica col dio del vino e dell’estasi, come farà Nietzsche, folle a Torino, firmandosi Dioniso), immagini vitali e allegoriche di una bellezza sensuale e ammiccante, ma vana e fugace, alle cupe e strazianti visioni di morte dell’ultimo periodo, del ”Martirio di sant’Orsola”, dove una pittura grondante cede e si sfalda di fronte al precipizio della finitezza, non solo della livida martire ma della vita stessa di Caravaggio, la cui esistenza negli ultimi anni era una candela che bruciava da entrambe le estremità. Numerosi i prestiti d’eccezione che danno grande rilievo e respiro alla mostra: torna a casa il ”San Giovanni Battista”, giovane “Riccetto” di eco pasoliniana che da settant’anni ammalia annoiate signore del Missouri a Kansas City, e “I bari”, che stufi di giocare a carte alla texana tornano ad ammonire il ludopatico romano sui pericoli del gioco. E’ nuovamente visibile al pubblico anche l’affollata prima versione della “Conversione di Saulo”, poi preferita alla più essenziale tela di Santa Maria del Popolo. Una tavola, quella Odescalchi, che sembra farsi metafora di tutta la sua opera: non è forse lui stesso, Michelangelo Merisi, un ferito dalla luce come Paolo? Se per Guy de Maupassant Monet era un cacciatore di luce, si può dire che Caravaggio sia stato un mendicante di frammenti luminosi. La sua friabile umanità cerca disperatamente la luce, cerca di uscire da un’oscurità che inghiotte e risucchia (proprio come le tre figure recentemente riemerse dal buio nel “Martirio di sant’Orsola”, grazie a un accurato restauro eseguito da Fabiola Jatta e Laura Cibrario). Si insiste sempre, salmodiando una formula solo parzialmente corretta, che il Merisi sia il grande pittore del naturalismo e della realtà, “ma non hanno occhi questi critici?”, verrebbe da dire con Pasolini.

Non c’è nulla di più irreale e artificioso di quelle luci, tutto teatro e messinscena, ed è qui che risiede la sua grande contemporaneità, nell’essere cinematografico. Il cinema è scrittura di luce, è un fascio di luce catturata che vince il buio della sala. Così è la sua pittura, scritta con la luce, che non è mai reale, naturale, ma squisitamente simbolica, allusiva di concetti quali la redenzione, la salvezza, il sacro e forse la Verità. “There is a crack, a crack in everything / that’s how the light gets in” canterà quattro secoli dopo Leonard Cohen (“Anthem”), cogliendo inconsapevolmente il senso di queste opere, di queste fenditure luminose che passano attraverso le crepe, crepe fisiche di stanzoni bui o quelle simboliche delle vite di guitti e miserabili travestiti da santi. Caravaggio non ha pensato col pennello, non ha dipinto opere elucubranti come alcuni suoi lontani seguaci, su tutti Velázquez e Rembrandt, ma ha dipinto l’essenziale, la vita, il sangue, la paura e il dolore (le grida! Clamor cogitationis?), la giovinezza e la morte, e per questo è un grande moderno e al contempo un classico e un antico. Egli ha cercato l’uomo, proprio come Diogene con la lanterna, al quale sembra infatti alludere il suo autoritratto nella travolgente “Cattura di Cristo” dublinese, pervenuta anch’essa in mostra. Di fronte alle sue opere si percepisce un bisogno, intimo e recondito, di rimanere in silenzio, in atteggiamento quasi ossequente. L’ho visto coi miei occhi, ai Musei Vaticani, osservando un signore con un grande cappello a tesa larga. Si avvicinava ansante alla “Deposizione” di Caravaggio e, arrivato a pochi passi da essa, si è tolto il cappello, portandolo al petto. Un piccolo gesto, apparentemente insignificante, che si porta dietro simboli e tradizioni secolari, un gesto quasi commovente e rivelatorio. Di fronte alle opere di Caravaggio bisogna togliersi il cappello, si sente il bisogno etico di restare a capo scoperto, come quando si è al cospetto di una illustre figura o quando si varca la soglia di un luogo sacro.

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