Alla riscoperta di Robert Nisbet

Carlo Marsonet

Senza la comunità, l’uomo non è nulla. Lezioni utili per la crisi sociale di oggi

Quando si parla di crisi sociale, ci si può riferire a molte cose. Grattando un po’, tuttavia, il perno argomentativo riguarda forse il significato che assume l’esistenza umana sulla terra. Se è vero, come ha notato John Gray in un libro sulla filosofia felina, che l’uomo sovente si crea problemi esistenziali per un istinto ansiogeno, d’altro canto è pur vero che, essendo qualche cosa d’altro rispetto a un animale, è portato a ricercare un significato diverso e più profondo della propria vita. Ciò non significa che lo trovi, beninteso. Ma questa ricerca ha a che fare con un impulso quasi naturale. Il fatto è che, non essendo una monade isolata, la persona ha bisogno di contesti in cui trovare significato: luoghi del cuore e rapporti umani che sostengano una vita buona, degna cioè di essere vissuta pienamente. Lo sapeva bene un autore come Robert Nisbet (1913-1996), che rimane a tutt’oggi dimenticato o noto a un’esigua minoranza di studiosi. Pensiamo a Sergio Belardinelli, che ha curato Storia e cambiamento sociale (1969), e a Spartaco Pupo, che ha curato Conservatorismo: sogno e realtà (1986) e scritto un paio di monografie su Nisbet, da ultimo Amministrazione pubblica e relazioni umane. Una rilettura delle lezioni bolognesi di Robert Nisbet. Sociologo americano prolifico e dalle solide basi filosofiche, Nisbet ha insistito molto sull’importanza della comunità. Non di quella astratta, che viene identificata con lo stato nazionale, bensì piuttosto di quei contesti primari che donano significato all’esistenza umana, come la famiglia, sempre più consumati perché sostituiti, nelle loro funzioni, dal dispositivo statuale. In un classico del 1953, tradotto qualche anno dopo ma ormai introvabile, The Quest for Community, Nisbet parlava del bisogno di comunità come qualcosa di potentissimo e irrinunciabile per l’essere umano: sradicate quest’ultimo, sosteneva, e vedrete come sarà portato a trovarla altrove. E ciò è precisamente avvenuto con lo statalismo. 

  
Quello che Nisbet aveva ben capito è che la libertà dell’individuo non si situa in un vuoto. L’individualismo rettamente inteso, detto altrimenti, ha ben poco a che fare con la sua caricatura, che diventa poi anche nemica dell’individuo stesso: rifacendosi a Edmund Burke e Alexis de Tocqueville, tra gli altri, Nisbet riteneva che l’individuo totalmente liberato da vincoli fosse portato a diventare schiavo delle sue stesse passioni e, non casualmente, dell’assolutizzazione della collettività. L’esempio classico è costituito, per Nisbet, dal pensiero di Jean-Jacques Rousseau: è lui, più di tutti gli altri numerosi nemici della società libera, ad aver arato il terreno della distruzione delle comunità naturali e spontanee appannaggio della comunità politica sovrana. E’ tramite il messaggio del ginevrino – l’individuo che si libera dai contesti comunitari per donarsi anima e corpo alla Volontà Generale – che la persona diventa nulla più di un granello di sabbia di una “massa allo stato cronico”, per usare la terminologia di Wilhelm Röpke: creta facilmente malleabile per essere plasmata dai detentori del potere di turno. 
Anziché centralizzare e verticalizzare sempre più lo stato, ciò di cui c’è bisogno, scriveva Nisbet in un testo di mezzo secolo fa, Twilight of Authority, è un laissez-faire delle comunità. Una radicale riscoperta di quegli enti intermedi e concorrenti che costituiscono non solo i contesti essenziali dell’individualità e della libertà individuale, ma anche un’alternativa sussidiaria al geloso monismo politico dello stato moderno.

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