
La libertà accademica non è libertà d'espressione
Revocata una conferenza su Russia e Ucraina all'Università di Torino per la proiezione di un video di Russia Today: mancano garanzie di confronto critico e rigore scientifico. La libertà accademica resta, ma con alcuni paletti
Il 12 marzo il Rettore dell’Università di Torino ha revocato la concessione degli spazi richiesti dal prof. Ugo Mattei, ordinario di diritto civile, per una discussione con un internazionalista e uno storico del diritto medievale e moderno su “storia e legalità internazionale nel conflitto tra Russia e Ucraina”.
La revoca è stata motivata dalla circostanza della contestuale proiezione di un documentario edito da Russia Today e tradotto dal giornalista Vincenzo Lorusso, anch’egli tra gli invitati. Sia il Rettore, sia il Tar Piemonte (investito in via cautelare di un ricorso da parte di Mattei) hanno sommariamente motivato in ordine alla riconducibilità della proiezione alle forme di radiodiffusione vietate dal regime sanzionatorio introdotto dall’Ue sulle emittenti controllate dal Cremlino. In realtà, sospeso il giudizio sulla questione tecnico-giuridica - se e quando una proiezione sia o meno una forma di radiodiffusione - il tema su cui vale la pena interrogarsi è un altro, ossia se sia pur sempre possibile una discussione di livello accademico su documenti asseritamente vietati.
La risposta deve essere in linea di principio positiva, a patto che si tratti effettivamente di esercizio di libertà accademica, ossia di una discussione preordinata all’avanzamento dello stato della conoscenza. In casi come questo, infatti, nei quali
a) la fondatezza delle tesi del documento in discussione è messa in dubbio dalla comunità scientifica di riferimento
b) il documento è asseritamente idoneo a cagionare un illecito
c) non è assicurata la presenza di esperti del settore in grado di sviluppare un confronto critico rispetto alle tesi esposte, l’Ateneo, attraverso i suoi organi, non può limitarsi a constatare che la richiesta di concessione di spazi provenga da un docente universitario né, del resto, può semplicemente eccepire che la richiesta provenga da un docente il cui insegnamento non rientra nel preciso settore scientifico-disciplinare afferente al tema in oggetto.
Al contrario, ha il dovere di verificare ovvero di promuovere la sussistenza di condizioni adeguate affinché la discussione si svolga secondo modalità effettivamente critiche e non si trasformi, invece, in un’occasione per l’aggiramento di un possibile divieto ossia per ammantare di dignità scientifica un documento che ne è privo. A questo proposito, fatico a ritenere adeguate le condizioni per una discussione critica sul documentario in questione, se solo si considera, fra l’altro, la partecipazione di un “giornalista” che, ancora di recente, nel raccogliere firme di cittadini italiani (per giunta false) contro il Presidente Mattarella al fine di consegnarle alla portavoce del Ministero degli Esteri russo, ha dimostrato di essere persona più che altro dedita alla propaganda di regime.
Il vaglio sulla dignità scientifica degli eventi accademici di questo tipo deve, pertanto, essere condotto attraverso un’analisi prognostica sull’idoneità dell’evento a costituire occasione di confronto critico e non di amplificazione di un messaggio politico unilaterale dalle conseguenze potenzialmente illecite.
Diversamente da quanto avvenuto all’Università di Leiden il 26 marzo scorso dove, nonostante le pur legittime proteste, è stato proiettato e criticamente discusso Russians at War, il film di Anastasia Trofimova premiato al Toronto Film Festival, nel caso torinese la mancanza di un qualsiasi esperto di storia della Russia e dei Paesi orientali o di giuristi/politologi, il cui interesse di ricerca verta sull’evoluzione dello spazio (post)-sovietico, rafforza i dubbi circa l’attitudine scientifica dell’evento. Né può essere sufficiente la partecipazione di qualificati esperti soltanto eventualmente presenti nel pubblico. Esiste una chiara asimmetria tra chi è chiamato a relazionare e chi soltanto partecipa a una conferenza, non essendo a quest’ultimo possibile orientare la discussione, ma solo obiettare o interloquire su singole questioni entro margini e tempi molto limitati.
Sì dirà allora che, ove si ritenesse che l’evento in questione non abbia caratura accademica, resti sempre possibile qualificarlo come esercizio di libertà di manifestazione del pensiero. Il che è senz’altro vero, ma, come direbbe Stanley Fish, Free Speech is not an Academic Value, sicché la libertà di espressione del docente universitario su temi di rilevanza pubblica è garantita al di là dell’esercizio delle proprie funzioni e avviene di solito anche al di fuori dei locali universitari; quando si organizza una conferenza in Ateneo e si sostiene di farlo nell’esercizio delle proprie funzioni si applicano, come del resto per pubblicazioni e progetti di ricerca, gli standard più restrittivi della libertà accademica, su cui la comunità scientifica di appartenenza (e soltanto essa) è chiamata a svolgere un controllo. Il controllo dei peer non andrà necessariamente procedimentalizzato, come temono alcuni, ma ben potrà restare diffuso e dovrà essere prioritariamente rivolto a creare le condizioni affinché ogni evento aperto al pubblico si svolga e non venga vietato. Spetta in ultima analisi al Rettore trarre una motivazione coerente per un eventuale diniego e agli interessati, se del caso, contestarlo.
Giovanni Boggero, Università degli Studi di Torino