
(foto EPA)
(1936-2025)
Mario Vargas Llosa: infedele, geniale e dotato di un talento che non l'avrebbe mai abbandonato
La fantasia romanzesca di eccezionale qualità (anche nei saggi) dello scrittore peruviano. L'innamoramento a Parigi per Emma Bovary e la rissa a Città del Messico con Gabriel García Márquez
Un’estate cominciammo a leggere gli scrittori sudamericani. Continuammo per un bel po’. Il perché non è del tutto chiaro. Son cose più simili a un contagio che a un ragionamento. Per quanto riguarda noi – e almeno un gruppuscolo per compagnia, allora dei libri si parlava fino al litigio e al ritiro del saluto – non c’entrava la politica. C’entravano le storie. Famiglione in luoghi esotici – perché le beghe familiari sono fascinose dappertutto, e oltre alla sorella zitella in quelle pagine c’era sempre una zia strega. Assieme a qualche notevole cattivo, di influenza regionale o di impatto nazionale. A un complotto da eliminare. Meglio ancora, il ricordo eroico e generoso del complotto che lo ha eliminato. O ha fallito nel tentativo. Erano eroi romantici e sudamericani: non sempre i piani erano precisi e funzionanti.
Daremo la colpa a Cento anni di solitudine anche se Gabriel García Márquez era colombiano, classe 1927, poi naturalizzato messicano. E al più ridotto, ma non meno fascinoso, La città e i cani: Mario Vargas Llosa era peruviano, nato nel 1936, morto ieri a Lima. Abbastanza prossimi, abbastanza talentuosi e abbastanza celebrati da sentirsi rivali. La rissa scoppiò nel 1976 a Città del Messico, quando Vargas Llosa, niente di meno che nel Palazzo delle Belle Arti, con un pugno ben assestato fece un occhio nero al fino ad allora amico Gabriel García Márquez. Che si fece fotografare – di fronte, tipo scatto segnaletico – e sfoggiò l’occhio malconcio per settimane. Magari lo ritoccò un pochino con la matita quando cominciava a diventare giallo, poi viola. Era come una medaglia al valore, da esibire più a lungo possibile.
Non si è mai saputo il motivo. Si intende, quello vero. Vargas Llosa fece riferimento a una donna. Nel gioco delle parti, mentre García Márquez faceva la vittima con il suo occhio nero, Vargas Llosa faceva il signorino – aveva iniziato con gli abiti rivoltati ereditati dei parenti più grandi e benestanti. (Alla letteratura sudamericana sta come il sarto Gay Talese sta agli Stati Uniti). Cercò anche di farsi sistemare i dentoni, parole sue (da un dentista conosciuto per caso, ma la sera prima dell’intervento si pentì, e rimasero com’erano).
Nel 1962 Vargas Llosa pubblicò La città e i cani, tradotto nel 1967 da Feltrinelli, che era sempre molto attento agli scrittori sudamericani (confezionò poi una ricca antologia, e la chiamò Americana, tra le rimostranze dell’una e dell’altra parte – per anni c’era gente che per pareggiare i conti chiamava gli Stati Uniti “Nordamerica”: corretto, ma con una punta di polemica). E precisa: “In un paese sottosviluppato come il mio, la violenza è esteriore, epidermica, presente in ogni momento delle vita individuale. E’ la radice di tutti i rapporti umani”. Fin qui la teoria, una scuola serve da palestra per la pratica. E fin qui, era fantasia romanzesca (va detto, di eccezionale qualità: talento che non lo abbandonerà mai, neanche nei saggi).
Dieci anni dopo, durante un viaggio, Mario Vargas Llosa pensa alla vita del dittatore Trujillo, che dal 1930 a 1961 aveva tenuto in pugno le sorti di Santo Domingo. E ha trovato, soltanto un paio di generazioni dopo, un giovane scrittore che con un lingua più moderna e ibridata ne segue le tracce: Junot Díaz. A Trujillo Vargas Llosa dedica lo strepitoso romanzo La testa dei caprone, visionario e carnale.
A 23 anni, era il 1959, Vargas Llosa era arrivato a Parigi con poco denaro in tasca, e per prima cosa comprò una copia di Madame Bovary. Visse innamorato di Emma Bovary tutta la vita. Ma era infedele dichiarato: il libro dove racconta l’amore per la letteratura si intitola: L’orgia perpetua.