
Particolare da “Oberon, Titania e Puck con le fate danzanti” di William Blake, 1786 circa
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Rudyard Kipling e il confronto con l'ignoto
Mondi lontani possono essere esplorati grazie al potere delle storie. La lezione dello scrittore di “Puck”, in bilico tra Oriente e Occidente
Non è un caso che in apertura del suo saggio Oriente e Occidente lo storico delle religioni René Guénon tiri in ballo immediatamente il nome dello scrittore britannico Rudyard Kipling. Se infatti in quelle pagine Guénon si interroga sulle profonde differenze tra Oriente e Occidente e su come alla decadenza di quest’ultimo si possa rimediare solo attraverso una riscoperta della cultura orientale, l’esperienza dell’autore del Libro della giungla, sempre in bilico tra la cultura britannica e quella indiana, non può che rappresentare un imprescindibile luogo di confronto per la natura “selvaggia” delle sue storie (“aveva sentito il richiamo del wild, della natura selvaggia, della vita allo stato brado; della foresta” ha scritto Ottavio Fatica) e per un antidoto alle trappole delle false, o violente, assimilazioni. In un orizzonte come quello contemporaneo in cui Occidente e Oriente si fronteggiano in una polarizzazione che non è più solo culturale, ma rischia invece di assumere forme ben più pericolose e in cui le interrogazioni sul destino o la sopravvivenza dell’Occidente (al tramonto o già al collasso?) prendono tinte sempre più fosche, l’opera di Kipling è la testimonianza di come questi due mondi possano convivere o, addirittura, unirsi. In particolare nei racconti di Puck, pubblicati adesso da Adelphi, Kipling dimostra di saper abitare con naturalezza questi differenti spazi geografici, sociali e spirituali attraverso narrazioni che riescono a mescolare e sovrapporre con grande disinvoltura il folklore europeo con quello indiano.
E’ vero che Kipling scrisse una volta che “East is East and West is West, and never the twain shall meet”, e cioè che “l’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente e i due mai si incontreranno”, ma spesso non si cita interamente quella pagina dove, poco dopo, lo scrittore sottolinea come questa differenza possa anche scomparire quando due uomini, “dopo essere venuti dalle estremità della terra”, si incontrano faccia a faccia, suggerendo che non mancano le differenze, ma che l’ipotesi di un punto d’incontro, prospettiva che oggi appare lontanissima, non sia così peregrina. Tutto questo non toglie il fatto che Kipling resti, in ogni caso, uno scrittore della contraddizione la cui eredità non è possibile immaginare priva di un ossimoro che può essere riassunto nella tensione, viva tra le sue pagine, tra un’Inghilterra imperialista e la fine dell’impero, l’Inghilterra vittoriana (che definì “il paese straniero cui mi sento più vicino”) e l’India, i due paesi che hanno caratterizzato la sua esistenza e che simbolicamente rappresentano, per lo spaesato e preoccupato lettore di oggi, le due barricate di una battaglia mai così aperta e rischiosa che trova però nelle narrazioni di Puck una sorprendente e rincuorante congiunzione.
La tensione, viva tra le sue pagine, tra l’Inghilterra vittoriana e l’India, i due paesi che hanno caratterizzato la sua esistenza
Nato nel 1865 a Bombay da genitori inglesi, il padre John Lockwood Kipling era un insegnante di scultura e direttore di una scuola d’arte a Bombay assieme alla madre Alice Macdonald, quando questi inviarono una foto del piccolo appena nato ad alcuni parenti in Inghilterra, uno dei fratelli della madre esclamò: “Buon Dio! Come è diventata nera Alice”. Kipling in quella foto era in realtà in braccio della sua ayah, la sua balia indiana, eppure questa che può essere derubricata come una semplice battuta permeata di humour inglese nasconde forse una delle chiavi di lettura per addentrarsi compiutamente all’interno dell’opera dello scrittore, nella “doppia identità” che sembra adombrarne ogni gesto e ogni parola. Questo carattere di esule “immaginario”, questa duplice direzione dello sguardo, trova infatti una miracolosa unità nel “demone” di Kipling, quell’elemento, proprio di ogni scrittore, che continuamente la fantasia corteggia e sfida, e che potrebbe essere definito come il desiderio di raccontare delle storie, una spinta ancestrale che unisce Kipling alle prime forme umane sulla Terra proprio nel segno di provare a spiegare il mondo attraverso la narrazione. Di questo potere del racconto ha parlato lo stesso Kipling, ricordando come sin da bambino il forgiare una storia assumesse un valore esorcizzante per la possibilità di descrivere, o cambiare, la realtà.
Nelle sue memorie infatti trova spazio un episodio antico, di quando da bambino, spaventato per un “profondo burrone, profondo circa trenta centimetri” da cui “usciva un mostro”, andò a cercare conforto dal padre che, proprio attraverso una storia, curò la paura del figlio: “C’era un bambino a Bombay / Che da una gallina scappò via / Quando gli dicono ‘Sei solo un bambino’ / ‘Beh, forse sì’ risponde: / ‘Ma non mi piacciono affatto queste galline di Bombay’”. Kipling annota a margine del ricordo di questa piccola poesia del padre che “mi consolò. Da allora ho sempre pensato bene delle galline” quasi a suggerire non solo come sin dalla prima infanzia siano state proprio le parole e i racconti a forgiarne la mente e la visione del mondo, ma anche come le storie possano costituire un mezzo per sgombrare il pensiero dalle nubi e dalle paure e rendere il passaggio dell’uomo nel mondo una splendida esplorazione dell’ignoto.
Il sostrato magico che abita le storie più celebri di Kipling, dai Libri della giungla alla straordinaria epopea di Kim, trova una sua concretizzazione in un breve racconto di Storie proprio così, in origine storie che lo scrittore raccontava alla sua figlia primogenita, Effie, e poi affinate nel tempo con gli altri figli e i loro amici, accomunate dal tentativo di illustrare i misteri della realtà (come mai il cammello ha una gobba? Perché il leopardo ha quelle strane chiazze sul pelo o il rinoceronte la sua strana pelle?). Il racconto, incentrato su una famiglia preistorica e intitolato Come fu creato l’alfabeto, è proprio una possibile porta d’accesso alla fantasia dello scrittore, un appiglio per provare a comprendere come si muove l’immaginazione sfrenata di Kipling. Il racconto ha per protagonisti un padre e una figlia che, mentre pescano o mangiano un ossobuco, creano letteralmente l’alfabeto, muovendo da ciò che vedono attorno a loro e trasformando suoni e oggetti in segni sulla corteccia, come una carpa con la bocca aperta che rappresenta una “a” (“‘La riconoscerò benissimo’ disse il papà. ‘E dovunque la vedrò, ne sarò sorpreso proprio come se tu saltassi fuori da dietro un albero e dicessi Aah’”), la coda di un pesce stilizzata che diventa una “y”, un uovo una “o”, un serpente che con il suo sibilo si trasforma, ancora stilizzato, in una “s”, fino alle prime vere e proprie parole, che uniscono il loro sostrato fonetico con le forme e i segni delle figure e “così avanti e così via e così di seguito finché non ebbero fatto e disegnato tutte le figure dei suoni di cui avevano bisogno, e ci fu, bell’e pronto e completo, tutto l’Alfabeto”.
Il racconto “Come fu creato l’alfabeto” è un appiglio per comprendere come si muove la sua immaginazione sfrenata
Nella breve coda della storia Kipling racconta di come, tornati nel loro villaggio, padre e figlia iniziarono a costruire una “collana alfabetica magica fatta con tutte le lettere, per poi metterla nel Tempio di Tegumai e conservarla per sempre” e come “tutti i membri della Tribù di Tegumai portarono i loro ciondoli e monili più preziosi tanto che Taffy e Tegumai impiegarono cinque anni interi a completare la collana”. Questo apologo dei suoi ferri del mestiere, lettere e parole, occupa all’interno dell’opera di Kipling un posto speciale per il suo contesto e per la natura del racconto: innanzitutto il fatto che sia inserito all’interno di una serie di storie prima raccontate a voce e poi trascritte per i più piccoli, parlando cioè all’infanzia e riuscendo nel miracolo di raccontare quanto di più difficile esista (rispondendo idealmente all’interminabile gioco dei “perché?” dei bambini) nel modo all’apparenza più semplice, e poi appunto per la fede, incrollabile, nella parola e nel racconto delle storie, due elementi che qui si uniscono e che rivelano il cuore ardente di ogni sua pagina.
E se le storie dei due Libri della giungla sono famose e obbediscono proprio a questo desiderio di “fare cose con le parole”, per usare la fortunata formula di un linguista inglese, meno conosciute sono proprio le storie del folletto Puck (tradotte della voce italiana più amica di Kipling, quella di Ottavio Fatica), racconti che nascono da una spinta autobiografica e che sembrano compiere, nella struttura e nei contenuti, quella fusione assoluta tra Oriente e Occidente di cui lo stesso Kipling è testimonianza in carne e ossa. Nel 1902 Kipling si trasferì con la famiglia nel Sussex, nella splendida casa di Bateman’s, e lì, immerso nel verde e in luoghi che le sue scorribande in automobile gli avevano fatto scoprire (l’automobile, perfetta fusione tra progresso tecnologico e conservatorismo di matrice britannica nel suo scorrazzare “con la contea sotto le ruote”, è protagonista dello splendido racconto Loro), trova la sua seconda patria, un luogo dove le valli si mescolano con le fonderie, i boschi e i ruscelli con i castelli, tanto che, come scrive Ottavio Fatica, “non c’era punto in quell’angolo di Inghilterra che non fosse pregno, animato, vibrante di fantasmi, ombre e apparizioni”.
I protagonisti di questi racconti sono una versione trasfigurata dei due figli di Kipling, Elsie e John, che qui si chiamano Una e Dan, che in un incipit certo debitore delle atmosfere di Alice nel paese delle meraviglie per il passaggio da un mondo ordinario a uno straordinario, mentre recitano in giardino le battute del Sogno di una notte di mezza estate, dopo aver ripetuto per tre volte consecutivamente le loro battute, improvvisamente assistono all’apparizione di un ometto “dal berretto turchino, quasi un grosso fiore d’aquilegia” e dai “piedi scalzi e villosi”.
La vita nel Sussex, “non c’era punto in quell’angolo di Inghilterra che non fosse pregno, animato, vibrante di fantasmi, ombre e apparizioni”
Lui, evocato dalle parole di Shakespeare, è Puck, l’ultimo rappresentante degli “spiriti delle colline”, pronto a raccontare ai bambini tutta la storia d’Inghilterra attraverso brevi racconti che hanno per protagonisti normanni, centurioni romani, angli e vichinghi (mentre nel secondo volume ci si muove nell’Inghilterra del Seicento, nelle colonie americane, tra le fila della Invincibile Armata e tra le pieghe della Rivoluzione Francese): “Vedrete quel che vedrete e sentirete quel che sentirete, foss’anche avvenuto tremila anni fa; né Dubbio né Timore giammai vi turberà. Stretto! Tenete stretto tutto quello che vi do”. Così se l’India è alla base dei due Libri della giungla e della storia di Kim, l’Inghilterra è il luogo che ispira i due volumi di Puck, Puck il folletto e Il ritorno di Puck, libri che all’interno dell’opera di Kipling sembrano qualcosa di differente dalle sue storie e dalle sue ambientazioni, ma che in realtà, e ancora una volta, richiamano al mistero di una scrittura alchemica che unisce luoghi lontanissimi, al racconto di una storia come edificazione del mondo, in poche parole a un orizzonte senza tempo dove magia e realtà si mescolano, fiaba e verità si confondono, non esistono più confini e a regnare, incontrastata, è solo la narrazione, ciò che, per riprendere le parole su Occidente e Oriente, tutto unisce: “Ma non ci sono Ovest né Est, / Razza, Nascita o frontiera, / Quando due uomini si danno la mano, anche dalle estremità della terra!”.
Inoltre Puck invita i due piccoli bambini a confrontarsi con l’ignoto, a cercare di trovare un senso alle cose a cui non riusciamo a dare una definizione: è il tema che attraversa tante opere di Kipling, è un dissidio che agita la celebre vicenda di Mowgli nel Libro della giungla, che occupa i pensieri di Kim nel romanzo omonimo, come il suo creatore diviso tra l’Impero e la cultura del paese che lo ospita, tra il mondo inglese e quello indiano, tra il protestantesimo e l’induismo. Tutte queste figure dell’infanzia, protagoniste di queste storie di iniziazione, sono testimonianza di un’apertura all’ignoto, di un’accettazione naturale delle differenze, di un desiderio di conoscenza che oltrepassa la normalità grazie a figure, folletti, animali parlanti e quant’altro, che spesso non sono al loro posto – come tanti dei protagonisti dei racconti di Puck – ma cercano, senza pace, sé stessi.
In uno dei suoi libri più famosi, Il codice dell’anima, lo psicoanalista James Hillman, riprendendo il mito di Er di Platone, descrive un’idea suggestiva su ciò che caratterizza ogni vita sulla Terra, ovvero che “ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata” e che il nostro ruolo è già designato: “Prima della nascita – scrive Hillman spiegando la radice della sua teoria –, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla Terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino”. Hillman nel Codice dell’anima passa in rassegna personaggi molto diversi, da Judy Garland a Woody Allen, da Richard Nixon a Truman Capote: non c’è traccia di Rudyard Kipling, eppure sembra proprio che idealmente le sue storie, la sua rappresentazione dell’infanzia (“dobbiamo prestare particolare attenzione all’infanzia, per cogliere i primi segni del daimon all’opera, per afferrare le sue intenzioni e non bloccargli la strada” annota Hillman) e i suoi personaggi si ricolleghino direttamente al mito del daimon di cui parla lo psicoanalista.
La psicoanalisi di Hillman, e Kipling che scrive: “Il mio Demone era con me nei ‘Libri della giungla’, in ‘Kim’, e in tutti e due i libri di Puck”
E’ d’altronde lo stesso Kipling, solitamente reticente nel rivelare gli aspetti più personali della sua scrittura, a raccontare: “Il mio Demone era con me nei Libri della Giungla, in Kim, e in tutti e due i libri di Puck” e quindi ad avvalorare una lettura in questo senso. Il daimon di Kipling si incarna in tutte le sue creazioni, assumendo di volta in volta delle forme diverse, ma obbedendo sempre allo stesso principio, quello di spiegare il mondo attraverso il racconto, ricollegandosi così alle più antiche forme di dialogo umano, all’idea cioè che l’essenza del nostro passaggio sulla terra, dei misteri che ne affollano lo svolgimento e delle paure che ne scolpiscono il progredire stia proprio nelle storie, gli unici strumenti con cui provare a scrutare l’ineffabile, a trovare un’unità.