(Unsplash)

il libro

Perdere il legame con gli altri significa morire anche se si resta in vita

Marco Archetti

Chi ha letto l'ultimo libro di Donald Antrim dice che dovrebbero leggerlo tutti quelli che soffrono di tendenze suicide. Ma in realtà l'autore si rivolge a tutti gli altri, a quelli che non sanno e che non immaginano 

Le piattaforme dei bookstore digitali sono piene di lettori che, dopo aver finito Un venerdì di aprile (Einaudi, 114 pp., 16,50 euro) di Donald Antrim, lo consigliano ad altri, soprattutto – citazione letterale – “se la vostra vita è stata influenzata dal suicidio”. Ayden, dagli Stati Uniti, la vede così: “Raccomandato sia alle famiglie sia alle persone che soffrono di tendenza suicide”. Ma in realtà questo libro è da consigliare a tutti gli altri, perché è a loro che lo scrittore si rivolge, chiamando in causa chi è estraneo ai fatti con domande del tipo: “Quali erano i miei crimini? E quali sono i vostri? Che cosa vi aspettate?”. Donald Antrim ha scritto una lettera per parlare con quelli che non sanno, con quelli che non immaginano. (E risponde: “Io mi aspettavo la povertà, l’abbandono da parte dei familiari che mi erano rimasti, l’incapacità di scrivere.” Incapacità che poi si è puntualmente verificata, mesi e mesi tra degenze, farmaci e psicosi senza toccare una pagina – senza scrivere e senza leggere, perché tutto era diventato impossibile).


Il racconto comincia un venerdì di aprile del 2006, con un uomo che passa il pomeriggio e la sera sul tetto del condominio di Brooklyn in cui abita. Ogni tanto scende la scala antincendio appendendosi alla ringhiera e poi torna di nuovo lassù, spaventato, raggomitolato, tentando di resistere alla tentazione di sbirciare oltre il cornicione. “Sul tetto, il mondo sembrava urlare. Sentivo le sirene: polizia, ambulanza, vigili del fuoco. Chi di loro sarebbe venuto a prendermi?”. Da qui, il racconto prende il via e notifica a chi legge, con la compostezza che solo il massimo della lucidità permette, tutti i ricoveri, i cicli di medicine, le terapie, le notti insonni, i risvegli di soprassalto quando, completamente zuppo di un sudore freddo e maligno, in preda a una nausea terrorizzante, Antrim ha capito che non ce l’avrebbe più fatta a guardare da solo negli occhi del demone che lo abitava, e che veniva dal passato. “Il nostro corpo potrebbe rompersi, o si romperà qualcosa fuori di noi. Ma che cosa?”. E’ così che – racconta – comincia la ritirata, ossia l’amara, dolorosa rinuncia a vivere, a riconoscere gli altri. Il copione è per tutti lo stesso. “Smetteremo di aprire la posta”, scrive Antrim. “E taglieremo i ponti con gli altri. Smetteremo di farci la doccia e di lavarci i denti. Ci aggireremo tra mucchi di piatti e vestiti sporchi e l’immondizia che si accumula”.


Noi, noi, noi. Antrim parla a nome di tutti quelli che vivono sospesi sul burrone. E che ci finiscono dentro. “Cos’è un crollo? Siamo fatti di parti che crollano?”. Quando passa dalla prima singolare alla prima plurale (il racconto oscilla tra l’io, un io analitico e trasparente, e il noi) fa venire i brividi. Era da Nuoto libero, splendido romanzo di Julie Otsuka di qualche anno fa, che non si leggeva un noi così cristallino, così dolorosamente scolpito, così netto emotivamente, così impressionante. Un noi che racconta un’appartenenza e anche un esilio. E che è una richiesta disperata di esistere. Ma la guarigione cos’è? Ce l’ha insegnato Thomas Mann: non meno dolorosa della malattia, ma bisogna passarci – un corridoio stretto, un imbuto lastricato di ricadute. Straziante anche lo sguardo dello scrittore sulle persone in visita. “I miei amici mi hanno detto che mi sarei sentito meglio. Ma che ne sapevano? Portavo i pantaloni e la camicia, niente camice da ospedale. Mi vergognavo e loro erano in imbarazzo. Lo sentivo”.


Finché poi – nell’ultima parte del racconto, su note di pianoforte – ecco che una maniera di stare al mondo la si trova. Un modo di sopravvivere al demone sempre in agguato. Ma la verità è che non si è mai al riparo. “La mia amica stava provando a morire. E voi, ci avete provato? Avete scoperto quanto è difficile? Forse siete rimasti in vita per mesi, per anni, avete provato dei farmaci. Vi ricoverano e vi dimettono, vi ricoverano e vi dimettono”. Antrim ha scritto uno splendido racconto intimo che ha come protagonisti gli altri, perché perdere il legame con gli altri significa morire anche se si resta in vita. “Non siamo matti né impulsivi. Siamo i vostri vicini, i vostri amici”. E conclude: “Forse siamo voi”.

Di più su questi argomenti: