
Bohumil Hrabal (Getty)
Tornano i libri del nostro uomo a Praga
Hrabal, un baule strapieno di gente e uno scrittore che è la sua stessa lingua
Uno scrittore capace di creare un universo narrativo unico attraverso un linguaggio vivo, sgrammaticato e poetico. Al centro della sua opera, una scrittura che dà voce agli emarginati e trasforma la quotidianità in epica umana
Fu amore a prima frase, questa: “Quell’anno lì, il quarantacinque”. Bohumil Hrabal cominciava così, come un aedo in hangover, uno dei suoi romanzi più fulminei e felici, “Treni strettamente sorvegliati”, storia allegra e tristissima del candido ferroviere Miloš. L’editore, come per buona parte dei testi hrabaliani, era e/o. Per chi non c’era, o se c’era dormiva, ora si può recuperare, da ottobre scorso il catalogo dello scrittore praghese è disponibile in ebook.
Fu amore a prima frase perché c’era una frase. E da lì, a cascata, una lingua che era una lingua, e un mondo che da quella lingua era plasmato. Anzi, al contrario: un mondo che da quella lingua sgorgava. Sì, succede con Hrabal e con ogni scrittore degno di questo nome: non tanto una lingua che trova sé stessa per raccontare un mondo, quanto un mondo che nasce da una lingua, madre nel senso che lo partorisce e lo plasma – nella fattispecie, il mondo dei pábitelé, cioè gli stramparloni da osteria, i generosi sbragoni, i millantatori lirici. Trent’anni fa esatti, nel 1995, il premio Grinzane Cavour fu assegnato proprio a Bohumil Hrabal, l’eterno outsider, il nostro uomo a Praga, il ferroviere di Dio (copyright Sergio Corduas), il grandioso titolare del circo, l’ubriacone lucidissimo che si diceva trascrittore. E invece era scrittore in pieno, portatore di lingua e di personaggi. Scrittore che allestì una voce, uno spartito, e tutte le parole capaci di contenere la smisurata vitalità dei suoi uomini piccoli che sognano sempre troppo in grande, cioè di tutti gli zii Pepin (divertitevi con “La cittadina dove il tempo si è fermato” e “La tonsura”), di tutti gli Jan Dite che hanno servito il re d’Inghilterra e desiderano tanto denaro da portarlo via a carriolate e vogliono un posto nel mondo – quello delle donne belle, da coprire, nude, di fiori –, di tutti gli operai delle fabbriche di birra, dei cuochi militari, dei ballerini anziani e progrediti. Insomma, Hrabal è un baule strapieno di gente. Ed è l’emblema dello scrittore che è la sua stessa lingua, vale a dire – sintesi lapalissiana – dello scrittore che è uno scrittore.
Fa specie dirlo oggi: trent’anni dopo questo premio che riconosceva la forza della sua voce, eccoci a leggere – ne parlava Mariarosa Mancuso su queste pagine – romanzi scritti con una lingua funzionale, piatta, di mero servizio, che non cerca niente e trova ancor meno, e infatti trova l’attualità. Hrabal no, Hrabal ha trovato l’universale attraverso lo specifico, reinventando una lingua per ogni personaggio che ha raccontato: ha fatto della paratassi il letto per il corso torrenziale delle sue storie, ha colorito di dialetti ogni singola inflessione dei suoi personaggi, il gergo burocratico militaresco è diventato soggetto comico, le voci narranti hanno assecondato il ritmo del respiro più che di quello delle regole sintattiche. E “quando il ritmo del respiro e quello del ricordo pulsano all’unisono, ecco che la prosa si fa lirica”, scriveva Annalisa Cosentino in postfazione a un’opera hrabaliana. “Sono poème en prose”, diceva, “brani in cui il tempo si ferma nella parola per non essere cancellato dalla storia”.
E i personaggi di Hrabal danno proprio la sensazione di esistere lì, sul ciglio del buio, dove o la parola trattiene qualcosa della loro sgrammaticata, irruente, festosa vitalità anche erotica, o il destino è, per loro, quello di scomparire per sempre, ingoiati dall’inesistenza, clava con cui la Storia li minaccia, perché Hrabal ha sì essenza festosa, ma orizzonti tragici, sempre. Hrabal è questa lingua che attinge al crepuscolo così come al mezzogiorno, è il suo stesso corpo mutevole. E’ la fune robusta di un linguaggio che issa dal pozzo un mondo per portarlo in vita, per farlo esistere come se esistesse per la prima volta. Fu amore a prima frase, perché c’era una frase. E ce ne furono molte altre, e note precise anche quando erano sgangherate, e lo stupore di veder sorgere dalla pagina esseri pienamente viventi. Nella sua scrittura non senti il manoscritto e le sue aspirazioni, né il discorso culturale con le sue astrattezze bamboleggianti. Diceva Hrabal che “perché ci sia scrittura, ci deve essere trpyt”, che vuol dire luce, vita.

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