Come ti sgonfio la bolla dell'allarme ambientalista sul dissesto
Roma. Le bombe d’acqua, l’alluvione biblica, il fatalismo, persino la superstizione che entra in scena quando si parla di clima e territorio – la mano di Dio dietro al disastro, la divinità antropomorfa che scatena il terremoto, la processione di flagellanti per evitare che il Male ritorni – e poi l’eterno ritornello del “governo ladro, non ci sono i soldi”. Tutto sembra irrisolvibile, tutto affonda nel rimpallo tra ambientalismo di maniera e comitati per acqua, aria, fuoco e natura in genere. Poi ci sono i numeri, e i soldi non spesi che saltano fuori dai cassetti di ministeri, dipartimenti, uffici locali della Protezione civile. E capita che un ambientalista storico di area Legambiente, Erasmo D’Angelis, già sottosegretario alle Infrastrutture nel governo Letta e già presidente di Publiacqua, si ritrovi a Palazzo Chigi, nel governo Renzi, a coordinare la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico (#Italiasicura), con due compiti: uscire dalla logica emergenziale, facendo prevenzione, e sviluppare le infrastrutture idriche e di depurazione (su cui piovono sanzioni Ue). E capita che D’Angelis, uno che “da ambientalista”, dice “aveva abboccato quando i ministri dell’Ambiente dicevano: servono 80 miliardi per mettere in sicurezza l’Italia”, debba ricredersi. Dice infatti che ha avuto “varie sorprese”, da quando coordina la Struttura di missione (con Mauro Grassi direttore): soldi che in realtà c’erano, preventivi molto inferiori alle allarmistiche stime precedenti, “quelle che favorivano l’immobilismo”, e burocrazie locali alla fin fine “contente” di “far parte di un progetto di riorganizzazione”. Dice D’Angelis che a volte qualche dirigente locale, da lui chiamato insistentemente, si stupiva: “Ma come? Ci siamo sentiti tre giorni fa!”. Non tutti sono pigri cronici, molti “non avevano nulla da fare perché nessuno dava loro niente da fare”. Un “paese a spezzatino”, con strutture che si sovrapponevano e pochi studi centralizzati: “Nei 70 anni compresi tra il 1945 e il 2014 – dice D’Angelis al Foglio – in Italia gli eventi geo-idrologici (frane e inondazioni) hanno causato 5.455 morti, 98 dispersi, 3.912 feriti e almeno 752.000 tra sfollati e senzatetto. E ogni anno si spendono circa 3,5 miliardi e mezzo per risarcimenti e riparazioni, senza mai fare prevenzione. Ci si sente Marine per coordinare e fare regia tra sedi decentrate dell’amministrazione pubblica, in mezzo a piccoli veti e monitoraggi non coordinati: abbiamo trovato dodici monitoraggi sul tema dissesto, con conseguente quadro oscuro sulle spese, sulle opere, sul controllo”. Dodici monitoraggi diversi: fatti cioè da ministeri, dipartimenti, società, uffici studi, Protezione civile, Corte dei Conti: “Ogni volta che si scopriva un nuovo monitoraggio si doveva ricominciare da capo: non ci tornava un numero”. E’ venuto fuori, dice D’Angelis, “che negli ultimi 15 anni lo stato ha stanziato, per contrastare il dissesto, circa 5 miliardi e 700 milioni, di cui 2 miliardi e 300 milioni non ancora spesi. Ora li abbiamo riattivati e li stiamo spendendo”. Adesso c’è un unico monitoraggio sul dissesto, dice D’Angelis, “il Rendis di Ispra, per favorire anche il controllo popolare su spesa e avanzamento del cantiere” (e chissà se i Cinque stelle, fissati con la trasparenza, apprezzeranno).
Seconda sorpresa, dice D’Angelis, “la serie di omissioni, sottovalutazioni, sciatterie, rimozioni, mancanza di disciplina, anche priva di controllo centrale. Abbiamo calcolato 3.600 uffici titolari di questa materia e 12.500 normative tra stato centrale e periferico. Oggi riusciamo a coordinarli, ma solo dopo aver accorciato la ‘filiera irresponsabile’, nominando tutti i presidenti di regione commissari di governo, e dotandoli anche di poteri di semplificazione normativa”. Quanto allo “spararla grossa” – da parte di chi appunto diceva “servono 80 miliardi per ricostruire l’Italia”, – si pensava che “almeno ci fossero dei piani”. Invece, dice D’Angelis, “non abbiamo trovato nulla. Era un giochino a chi alzava di più l’asticella, per poi dire: è impossibile, chiamando in causa il vincolo europeo, la spending review, la bancarotta dello stato”. Da qui l’operazione-elenco: “Abbiamo chiamato tutte le regioni, le Autorità di bacino e le Protezioni civili regionali”, dice D’Angelis, chiedendo “la lista di tutte le opere da fare per garantire un rischio accettabile di fronte all’evento imprevisto. E ora finalmente abbiamo un elenco nazionale: circa 7.120 opere, per un fabbisogno presunto di 21 miliardi e 600 milioni, altro che ottanta miliardi. Ma, altra sorpresa amara, abbiamo scoperto che quasi il 90 per cento di queste opere necessarie sono ancora a livello di titolo o studi di fattibilità – pochi progetti sono in fase di cantiere. Incredibile, in un paese così a rischio”. Da quelle opere è stato fatto un piano stralcio 2015 che riguarda le 14 città metropolitane. “Lì finanziamo tutto quello che c’è di cantierabile per un miliardo e 300 milioni nell’anno corrente. Abbiamo poi previsto i primi 9 miliardi per il piano nazionale, di cui 5 miliardi arrivano dal fondo sviluppo e coesione, 2 miliardi da cofinanziamento regionale e fondi europei e 2 miliardi dal recupero fondi non spesi. Inviamo risorse a condizione che ci sia la certezza che il territorio non venga devastato dall’assenza di pianificazione urbanistica”.
[**Video_box_2**]In un paese “che inseguiva la logica emergenziale a oltranza”, dice D’Angelis, “non c’è ora nemmeno la possibilità di fare il punto definitivo sui condoni, perché ci sono soltanto dati parziali”. Sulle infrastrutture idriche, sempre oggetto della “missione”, ci sarà una convention il 24 marzo: “In Italia 3 italiani su 10, ma al sud anche il doppio, sono privi di fognatura o di depurazione. Anche in questo caso ci sono molti soldi non spesi”. E anche in questo caso, viste anche le procedure d’infrazione europee pendenti, dice D’Angelis, “bisogna riflettere sul fallimento dell’ambientalismo per come l’abbiamo vissuto noi. Fallimento politico, sì, ma anche culturale: questo è un paese che si può difendere, un paese che ha il know-how, un paese che nel 1500, a Ferrara con gli Estensi, e nel 1600, al sud con i Borboni, è stato all’avanguardia sui provvedimenti antisismici. E ora dovremmo fare come in Giappone o come in California, invece di prendere le esercitazioni antisismiche come ora di ricreazione. Ma appunto, la rivoluzione è prima di tutto culturale”.