Vivi perché imprenditoriali
Roma. Nel 1979, negli Stati Uniti, il professore di Harvard Ezra Vogel pubblicò “Japan as Number One”. Erano gli anni in cui Tokyo comprava a mani basse in terra americana, fino ad accaparrarsi il Rockefeller Center di New York. Era lecito attendersi il sorpasso nipponico ai danni dell’America. Ma si rivelò sbagliato. Nel 1993, l’economista del Mit Lester Thurow mandò in stampa “Head to Head”; la moneta unica europea era appena nata, e questa volta non pochi osservatori preconizzavano un altro sorpasso, quello del Vecchio continente ai danni del Nuovo. Di nuovo: lecito attenderselo, ma decisamente sbagliato, come ogni cittadino europeo deve purtroppo riconoscere oggi. Gli anni 90, in America, furono infatti anni di grazia per la crescita della produttività e del tasso di innovazione, oltre che del reddito pro capite quindi. Per usare la formula degli economisti William J. Baumol, Robert E. Litan e Carl J. Schramm, abbiamo assistito allora alla riscossa del “capitalismo imprenditoriale”. Un capitalismo peculiare, con al centro gli imprenditori, appunto, e la loro capacità di fornire idee radicalmente nuove, di testarle sul mercato, senza attendere soltanto gli input del moloch statale o delle corporation già grosse e affermate.
La scommessa dell’“austerity” inglese di questi anni, in fondo, è proprio quella di riagganciare il treno del “capitalismo imprenditoriale”. Lo snellimento dello stato deciso dal governo conservatore di David Cameron è scevro da venature moralistiche in stile continentale. Non a caso “Austerität” è termine che i tedeschi hanno dovuto inventare di recente per domare i fiacchi e indebitati euromediterranei; a Berlino si addice più la formula “den Gürtel enger schnallen”, cioè tirare la cinghia. A Londra, invece, ridurre la spesa pubblica è soltanto la prosecuzione della crescita con altri mezzi. Vuol dire rendere lo stato meno oneroso per i contribuenti, specie quelli animati da voglia d’intrapresa. Così diventa perfino un po’ leziosa la polemica sul tasso di adesione del governo inglese alle sue promesse di rigore fiscale. Il bilancio pubblico inglese non sarà in pareggio strutturale come promesso al momento dell’elezione nel 2010, il surplus di bilancio è rinviato al 2018-’19, ma oggi il rapporto deficit/pil è al 5 per cento mentre nel 2010 era all’11 per cento. Sempre dal 2010, la spesa dei ministeri inglesi è scesa dell’8 per cento, ammettono perfino sul liberal New York Times, sempre attento a cogliere in castagna il governo conservatore-liberale di Londra. Ma davvero era lecito attendersi che Oltremanica si sarebbero impiccati a un decimale di deficit in più o in meno? Era forse questa la quintessenza dell’austerity, the original one? George Osborne, Cancelliere dello Scacchiere, la pensa diversamente (vedi articolo sotto).
Così, ieri, prima ha rivendicato dati sulla crescita da primato in occidente: più 2,5 per cento quest’anno, dopo il più 2,6 del 2014. E poi ha annunciato nuovi sgravi fiscali: per l’industria petrolifera, i risparmiatori, gli acquirenti di una prima casa e i consumatori di alcol (che non guasta mai). A cosa sia servita l’austerity inglese d’altronde si era già visto: a lavorare in tandem con una Banca centrale munifica senza impaurire i mercati. E soprattutto ad abbassare le tasse sui produttori, senza paura di apparire pikettianamente scorretti se si iniziava dai redditi più alti. Il governo inglese, più che sulla riduzione della spesa, ha nuotato controcorrente quando si è trattato di tagliare la Corporate income tax (Cit) per imprese e profitti, mentre gli stati europei ne utilizzavano il gettito per tamponare la crisi fiscale. Così la Cit inglese dal 2010 è scesa progressivamente dal 28 al 20 per cento. Senza contare le defiscalizzazioni sui profitti da brevetti e sul costo del capitale. Ora la disoccupazione scende, e Londra ringrazia l’entrepreneurial capitalism di stampo anglosassone.