L'impresa non è un crimine
L'industria è il demonio solo in Italia. Lezioni petrolifere da Londra
Roma. La Gran Bretagna ha previsto nel budget annuale una riduzione della fiscalità senza precedenti sui profitti delle compagnie petrolifere attive nel Mare del nord (che a causa del dimezzamento del prezzo del petrolio paventano di ridurre investimenti e posti di lavoro). In Italia l’atteggiamento verso l’industria petrolifera è opposto. La fronda politica sta depotenziando le aperture del governo manifestate con il decreto Sblocca Italia. La conversione in legge ha stravolto il testo rendendolo inefficace per gli oltre venti operatori le cui attività sono semiparalizzate. L’attribuzione di un titolo concessorio unico per avviare l’estrazione dai giacimenti, in parallelo con l’approvazione delle valutazioni di impatto ambientale, era vista come un’inversione di rotta rispetto all’immobilismo passato della politica. Tuttavia in Aula sono state aggiunte complicazioni burocratiche prima inesistenti legate a un serie di decreti attuativi da approvare. Ripicche di partito e ritorsioni verso il governo che intanto vinceva sul Jobs Act dimostrano che, agli occhi degli investitori, il Parlamento è il primo portatore sano della sindrome Nimby (“non nel mio giardino”). I risvolti sono masochistici. L’ampliamento o la realizzazione di opere infrastrutturali contenute nel decreto “che farà ripartire l’Italia” dovrebbe attingere in parte alla fiscalità prodotta da quei 16 miliardi di investimenti attesi nel settore petrolifero che ora si vedranno col binocolo. L’Italia è l’unico paese al mondo a voler perseguire penalmente, con reclusione da uno a tre anni, i vertici delle società petrolifere che usano la tecnica della “air gun” per mappare i fondali marini attraverso getti di aria compressa. Paradossale che l’analisi geo-sismica sia comunque permessa con gli stessi metodi ai centri di ricerca: dal punto di vista del legislatore la fauna marina è danneggiata solo dai petrolieri e non dagli scienziati.
Il governo inglese invece ha stanziato nell’ultimo bilancio 20 miliardi di sterline per l’esplorazione: soldi pubblici per facilitare la scoperta di nuovi pozzi e ingolosire gli investitori. L’emendamento-siluro è figlio di un trappolone siciliano teso da Forza Italia con la complicità del M5s per colpire il governatore Rosario Crocetta (Pd) e l’Ncd del ministro Angelino Alfano. Crocetta aveva stretto un accordo con Eni per cui l’azienda ha accordato 2,2 miliardi di euro per riconvertire alla chimica verde l’altrimenti fallita raffineria di Gela, da 600 addetti, ottenendo la possibilità di avviare le esplorazioni per un giacimento di gas nel Canale di Sicilia per cui servono rilievi con air gun. I termini dell’accordo sono simmetrici: se cade l’esplorazione, pure Gela vacilla. Eni, al pari di Total o Shell, col calo-petrolio stima un taglio del 10-15 per cento degli investimenti globali spostandosi su “progetti più rapidi, che possono dare introiti più velocemente”. Come si orienterà adesso Eni che in otto mesi ha avuto il permesso di perforare in mar Adriatico dalla Croazia?
Alberto Brambilla