I buoi escono, qualcuno controlla?
Roma. Con l’acquisto di Pirelli da parte della conglomerata di stato cinese ChemChina, i nostalgici dell’italianità hanno versato una lacrimuccia per un altro pezzo di storia industriale d’Italia che se ne va. Eppure Pirelli era già riposta in mani straniere (46 per cento) e genera la quasi totalità del fatturato all’estero (96 per cento). La cessione era in gestazione da tre anni, sotto la regia dall’erede di casa Pirelli, Marco Tronchetti Provera, e rientra nella categoria delle “operazioni di mercato”: sette miliardi di euro sborsati da ChemChina per diventare primo socio e creare il quarto gruppo globale degli pneumatici d’alta gamma. L’ex re delle teiere Ren Jianxin finanzia un’innovazione tecnologica altrimenti proibitiva per le sole forze di Pirelli. E se chi non innova muore…
Tuttavia l’accordo è solo l’ultima operazione delle agenzie governative della Repubblica popolare in Italia, mèta di investimenti crescenti (in termini assoluti siamo a 6 miliardi di euro in sedici operazioni di fusione/acquisizione andate a segno). Il flusso inedito di capitali cinesi non è sintomo di una particolare capacità di attrarre investimenti ma semmai di “alienare beni” (Giuseppe Berta, Università Bocconi). Motivo in più per chiedersi quale sia il livello d’attenzione prestato dall’establishment politico rispetto ad asset nazionali, a diverso grado di interesse strategico, corteggiati da investitori pubblici o para-pubblici distanti dai tradizionali rapporti transatlantici di Roma.
Perfino in paesi aperti alla contesa capitalistica, come gli Stati Uniti, esistono meccanismi governativi di selezione all’ingresso dei “buyers” a seconda del loro trascorso, delle loro mire, e delle future intenzioni. A Washington il Commitee on foreign investment in the United States ha l’ultima parola in caso di cessione di asset particolarmente sensibili. E’ stato così nel caso del veto alla vendita della petrolifera californiana Unocal ai cinesi o dello stop all’ingresso dei colossi della telefonia mobile Huawei e Zte percepiti come una “minaccia per la sicurezza nazionale”; qui invece, le stesse società, sono tutt’altro che osteggiate da rappresentanti di governo.
“Di per sé l’enfasi sulla ‘marea gialla’ è sintomo di pubertà finanziaria, e non certo della maturità propria di una democrazia e grande economia occidentale. Lo straniero di per sé non è un male, specie se aiuta a fare il salto da una realtà locale e padronale a una scale globale, in grado di creare valore e benessere su ordini di grandezza altrimenti inimmaginabili. E magari di far conoscere fuori dall’Italia autentiche perle, come le ‘arance ritardate’ siciliane”, dice al Foglio Giovanni Castellaneta, presidente di Sace, società pubblica d’assicurazione del credito all’export, e già ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti (2005-’09). “In un sistema globale e sempre più aperto, domanda e offerta si incontrano anche quando provengono da zone molto remote. E ha poco senso preoccuparsi aprioristicamente degli investimenti cinesi nelle nostre realtà industriali, specie se si tiene conto che siamo il terminale delle nuove vie della seta e un portone d’ingresso privilegiato verso il resto dell’Unione europea – aggiunge Castellaneta – Il punto non è se accogliere investitori cinesi, i buoi sono ampiamente fuori dalla stalla, ma come farlo. E non si fa subendo passivamente ogni offerta di denaro, né chiudendosi a riccio di fronte a manifestazioni di interesse, ma valutando caso per caso le convenienze industriali e del sistema paese. In questo abbiamo molto da imparare dagli americani ma anche dagli altri europei, che hanno saputo creare task force governative in grado di contemperare convenienze private e interesse nazionale, il ‘particulare’ e l’‘universale’. Chi si occupa di investimenti esteri deve avere anche l’accortezza di riconoscere che sono degni di attenzione non solo i classici ‘asset sensibili’ (armamenti, telecomunicazioni, ecc.) ma anche prodotti alimentari, generi di consumo, intangibili di ogni genere. E occorre tenere a mente che quello cinese è sì un mercato vastissimo, ma è anche la terra del capitalismo di stato, che rende statale acquistandolo ciò che in precedenza era privato. E magari non garantisce reciprocità e fa scorpacciate dei brevetti che incontra. Ma, ripeto, è inutile gridare al lupo al lupo a priori. Altrimenti vorrà dire che il problema non è la fame del Dragone, ma la nostra incuria”. Castellaneta ha in mente un osservatorio permanente a Palazzo Chigi che “abbozzi” una politica industriale, delle linee guida, da fare applicare ai ministeri competenti, studiando le offerte secondo opportunità e interessi.
[**Video_box_2**]Carlo Calenda, viceministro dello Sviluppo economico con delega all’Internazionalizzazione, condivide l’esigenza di un meccanismo di controllo/esame sebbene non ci sia urgenza. Secondo Calenda, la Cina ha finora perseguito strategie “non offensive” declinate in acquisti di quote marginali delle partecipate di stato (Eni e Enel) di società quotate (Generali, Fiat, Telecom, Prysmian) e fusioni/acquisizioni in accordo con il governo o le sue agenzie “da pari a pari” (l’ingresso in Cdp Reti, elettricità e gas, di State grid of China o del fondo sovrano Cic in F2i) ma “la casistica in futuro diventerà molto importante – dice Calenda di ritorno da vari colloqui con gli investitori a Shanghai e a Pechino – perché è chiarissimo che hanno una seria intenzione di investire più pesantemente” e quindi “sarà necessario aprire una discussione sull’opportunità che il governo possa esprimere un’opinione quando un investitore di stato intende comprare la maggioranza di una società considerata di interesse strategico”. Anche se “i cinesi non comprano se non offri”, un esempio – ipotetico – di ciò può essere un’Opa ostile sulla maggioranza delle assicurazioni Generali, o altro, oppure l’aggressione di un’area portuale. Difficile però che un’agenzia di controllo, su stampo americano, incontri il favore di Gran Bretagna e paesi nordici a livello di Unione europea, dove si discute il trattato bilaterale con la Cina. Sono paesi poco inclini a opporre paletti comunitari agli investimenti asiatici, sostiene Calenda, meglio dunque pensarci da soli.