Gli americani affamati d'Italia
Milano. I cinesi ancora non ci sono. Ma a palazzo Mezzanotte, quella che fu la sede della vecchia Borsa “gridata”, non hanno tempo per accorgersene. Va in onda, fino a stasera, la Star Conference: 1.700 meeting in due giorni, 29 per ciascuna delle 67 “stelle” di Borsa, società medie, anzi piccole per gli standard internazionali cui vanno aggiunte le potenziali 22 matricole del programma Elite che la Borsa addestra prima del debutto. Il bilancio è già positivo. A caccia di occasioni di acquisto, si sono mossi almeno 80 investitori internazionali, un buon terzo in più dell’anno passato: la pattuglia più forte, una quindicina in tutto, proviene dalla City londinese ma opera per conto delle grandi case degli Stati Uniti, che pure annoverano altri sei osservatori.
Anche così si misura la voglia di Europa, Italia in testa, che investe la finanza internazionale. E’ di ieri un report del Credit Suisse rivolto ai broker internazionali dall’eloquente titolo “Italia tra ripresa e riforme: un nuovo Rinascimento?”. Non meno ottimista Jp Morgan, il colosso bancario americano: meglio l’Italia della Germania, si spingono a dire gli analisti. La discesa dell’euro – è il ragionamento – perde velocità, a danno dei giganti d’oltre Reno. A favore dell’Italia gioca, invece, la discesa del costo del denaro, preziosa iniezione d’ossigeno per lo stato anche per Enel, Telecom e buona parte delle imprese. Trae così alimento il flusso di denari (più di 37 miliardi di dollari a marzo per i soli fondi azionari Usa) che fa rotta verso il Vecchio continente, attratti anche dai tassi quasi a zero che spingono i Big, da Apple a Coca-Cola o Procter & Gamble, ad accendere prestiti in euro. L’ha fatto, novità assoluta, anche Warren Buffett, che non si era mai allontanato dal dollaro. Ma la sua non è una semplice mossa finanziaria. Poche settimane fa un dirigente della sua Berkshire Hathaway ha bussato alla Tip, la società di investimenti di Gianni Tamburi che ha collezionato un ricco portafoglio di partecipazioni made in Italy; la ragione? “Prima o poi potremmo investire in Italia, mi hanno detto – dice il finanziere – Ma prima vorremmo capire il contesto”. E capire la qualità della merce in vendita, perché di Ferrari ce n’è una sola e sulle griffe del lusso o dell’alimentare la concorrenza di arabi e cinesi è spietata.
[**Video_box_2**]Poi c’è chi, come BlackRock, ormai in Italia è di casa: Intesa, Unicredit, Monte Paschi, Ubi, Banco Popolare. Ovunque il colosso capitanato da Laurence Fink, accolto un anno fa con tutti gli onori da Matteo Renzi, ha smentito le Cassandre che prevedevano che i fondi della “Pietra Nera” sarebbero usciti in un baleno, seppur con forti guadagni, lasciando il cerino in mano alla finanza indigena. Non è andata così. Anzi, non è difficile prevedere che BlackRock, come Eaton Vance, Athena Capital o Silchester per citare i nomi di alcuni tra i grandi investitori in Bpm, Banco Popolare o Ubi, si accinga a moltiplicare gli investimenti nelle Popolari, dopo la riforma. Anche perché la finanza americana ha saputo valorizzare una delle grandi ricchezze nostrane: la propensione al risparmio. Dietro il boom dei fondi (20 miliardi di raccolta solo a febbraio) ci sono spesso sigle a stelle e strisce come Fidelity, Vanguard, Invesco, che hanno saputo sfruttare gli spazi lasciati scoperti, negli anni delle grandi economie, dalle banche nostrane. E così capita, non di rado, che i fondi per investire nelle aziende made in Italy, provengano dal risparmio degli italiani.