La deflazione, bestia nera dell'Europa. Ma non tutti la temono
Milano. Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro della deflazione. Ed è una minaccia grave per la crescita, visto che l’abbassamento generalizzato dei prezzi spinge i consumatori a rimandare gli acquisti in attesa di prezzi più bassi e porta quindi a una riduzione dei consumi, che a loro volta portano a un calo del fatturato e degli investimenti delle aziende, che alla fine sono costrette a licenziare. Da qui meno soldi disponibili per gli acquisti e riparte il giro. Si entra una “spirale deflazionistica”, una situazione in cui la riduzione dei prezzi porta alla stagnazione se va bene, oppure alla recessione. Ed è proprio per evitare che la paura della deflazione possa soffocare la ripresa economica che il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha avviato il Quantitative easing che ha l’obiettivo di far salire i prezzi e tirare l’Eurozona fuori dalla spirale.
L’idea che la deflazione sia strettamente legata, se non la causa, della recessione, è dovuta alla Grande depressione degli anni 30, in cui ci fu un drammatico crollo dei prezzi, della produzione e del pil. Ma le cose non sono andate sempre così, anzi ci sono esempi come la seconda metà dell’800 di lunghi periodi di deflazione accompagnati da sostenuta crescita economica. E che non ci sia alcun legame diretto tra inflazione e crescita economica lo sapeva bene anche l’America rooseveltiana che, appena dopo aver vissuto la Grande depressione, invitava con cartelli pubblicitari i cittadini a combattere l’inflazione: “I prezzi vanno su, la gente compra meno, le imprese chiudono, le persone perdono il lavoro”. In pratica era un avviso del rischio di una “spirale inflazionistica”. “Il punto è che l’inflazione e la deflazione non sono buone o cattive di per sé – dice al Foglio Giulio Zanella, economista dell’Università di Bologna – La deflazione non necessariamente deve essere una fonte di preoccupazione, perché non tutte le deflazioni sono uguali. Quelle che derivano da uno choc della domanda sono negative, ma quelle che vengono dal lato dell’offerta in realtà sono positive, perché vuol dire che ci sono forze e innovazioni che fanno abbassare i prezzi. Quale sia la natura dell’attuale spinta alla riduzione dei prezzi non si sa, magari è un mix delle due, ma è di questo che bisognerebbe ragionare”.
Che non ci sia un collegamento tra deflazione e depressione lo dice anche uno studio di Andy Atkeson e Pat Kehoe che hanno analizzato i dati della variazione dei prezzi e del pil di un campione di 17 paesi dal 1820 al 2000; l’unico caso rilevante è quello degli anni 30. E’ la stessa conclusione a cui giungono diversi economisti della Banca dei regolamenti internazionali in un recente studio, cui ha lavorato pure l’italiano Claudio Borio, che dopo aver analizzato i dati di 38 paesi dal 1870 ad oggi confermano come non ci sia legame statistico tra la deflazione e il rallentamento della crescita: “Il dibattito attorno alla deflazione – scrivono gli economisti – è delineato dalla visione profonda che la deflazione, a prescindere dal contesto, sia una patologia economica che ostacola qualsiasi espansione sostenibile e forte. E’ radicata la visione che la deflazione segnala un deficit di domanda aggregata, che spinge verso il basso contemporaneamente prezzi, redditi e output. Ma la deflazione può anche derivare da un aumento dell’offerta: dal miglioramento della produttività, da una maggiore concorrenza, o da input più economici e più abbondanti come il petrolio. Queste deflazioni dal lato dell’offerta deprimono i prezzi, aumentando al contempo redditi e output”. E’ quello che in molti sostengono stia accadendo adesso, ma soprattutto negli ultimi decenni, per merito della globalizzazione, dell’innovazione tecnologica, di costi di produzione più bassi e più recentemente per il drastico calo del prezzo del petrolio, e che porta un economista come John Cochrane a suggerire di non prestare troppo ascolto agli allarmi contro qualche punto decimale di deflazione, roba che non ha mai fatto male a nessuno: “Relax – ha scritto Cochrane sul Wall Street Journal – Ogni pochi mesi sentiamo parlare di un ‘nuovo grandissimo problema’ da cui i nostri ‘politici’ devono salvarci. Aspettiamo il prossimo”.
In realtà non tutti i politici sono terrorizzati dalla deflazione, c’è chi come il primo ministro britannico David Cameron, in controtendenza rispetto ai suoi colleghi, esulta per l’inflazione scesa allo 0 per cento: “E’ una buona notizia per le famiglie e un segno che il nostro piano di lungo termine sta funzionando”. E Cameron fa bene a gioire visto che il pil britannico cresce a ritmi sostenuti e l’inflazione è tirata giù dal calo globale dei prezzi del petrolio e degli alimenti, mentre la cosiddetta “core inflation” – che esclude alimenti e energia – è in aumento. Anche la Spagna che è in deflazione da diversi mesi vede crescere il pil a livelli alti. Insomma se la deflazione è quella buona, l’economia non può che giovarsene e se le famiglie non consumano, probabilmente non è dovuto al calo dei prezzi. “Non dico che questa deflazione sia una cosa buona, anzi io sono tra i pessimisti – dice al Foglio Francesco Daveri, economista dell’Università di Parma e animatore del sito Lavoce.info – ma se i consumi non ripartono non dipende da questo. Le famiglie italiane sono indebitate, le tasse sono alte e anche chi ha avuto il bonus di 80 euro e vede aumentare il proprio potere d’acquisto non spende, perché c’è incertezza. E’ stato detto che il bonus è strutturale, ma non c’è una riduzione della spesa pubblica che convinca le persone e da lì non si scappa. La spesa è oltre il 50 per cento ed è data in crescita nei prossimi anni”. Ma la deflazione, più che danneggiare imprese e famiglie, colpisce il più grande debitore, lo stato, rende più complicata la gestione del debito pubblico: “Certo, un po’ di inflazione aiuta i governi lenti a fare gli aggiustamenti fiscali e tutto sommato la paura di conti fuori controllo e di un debito che si avvita su se stesso scoraggia i consumatori anche se c’è una ripresa”. Ma da lì non si scappa se non si mette mano alla spesa.