Il leader laburista Ed Miliband (foto LaPresse)

Elezioni nel Regno Unito

Cosa insegna all'Italia lo schiaffo delle imprese al Labour di Miliband

Alberto Brambilla
Elezioni nel Regno Unito. Endorsement di 103 capi d’azienda a Cameron. I re di denari mollano la sinistra anti business e poco credibile. Non chiamateli voltagabbana

Roma. Con una lettera pubblicata ieri dal Daily Telegraph, 103 capi d’azienda inglesi hanno osannato i conservatori di David Cameron affossando l’anti imprenditoriale concorrente laburista Ed Miliband. Uno schiaffo a 35 giorni dalle elezioni generali. La lettera plaude alla politica economica di Cameron e del cancelliere dello Scacchiere George Osborne – artefici della crescita del pil più rapida nel Vecchio continente (più 3,7 per cento) – ed elogia la riduzione dell’imposta sui profitti aziendali avvertendo che “un cambio di direzione in corsa”, già anticipato dai laburisti in caso di vittoria, metterebbe a rischio lavoro e investimenti, e addio ripresa.

 

I firmatari sono leader di società quotate e no. Ci sono pesi massimi come Bob Dudley, ceo di Bp, e capi di medie aziende. La lettera rappresenta uno dei più espliciti endorsement verso un partito all’indomani del via alla campagna elettorale (e alla vigilia del primo confronto televisivo superaffollato con gli esponenti di sette partiti, stasera su Itv) e segna la rottura più profonda tra il Labour e la comunità degli affari dai tempi di Tony Blair,  il cui successo era fondato anche sulla fiducia accordata da dozzine di businessman amici. Miliband, candidato premier dell’opposizione, ha voluto marcare le distanze dalla City fin dall’ascesa a leader del Labour. Nel 2011 lanciò l’anatema verso il capitalismo “predatorio” annunciando misure ansiogene per l’establishment economico (aumento delle imposte sulle rendite e sugli immobili di lusso). L’acme dello scontro a febbraio. I laburisti etichettarono come “evasore” Stefano Pessina, boss di Boots, residente a Monaco, che aveva paventato una “catastrofe economica” con i laburisti a Westminster. L’opinione è in realtà condivisa da decine di imprenditori e notabili che, indispettiti dalla demonizzazione verso chi dà lavoro, hanno dato manforte al manager italiano. Pure Assem Allam, grande finanziatore del Labour, convinto che “una nazione migliore non si costruisce senza chi produce ricchezza”, ha da poco suggerito a Miliband di virare a destra per rimediare e di ripassare le lezioni della baronessa Thatcher. Senza andare lontano, basterebbe leggere la biografia di Blair. “Una volta che hai perso il sostegno dei chief executive – scrive l’inquilino di Downing street nel decennio 1997-2007 – hai perso più di qualche voto: perdi credibilità nella gestione dell’economia”.

 

[**Video_box_2**]E’ infatti sulla costruzione della fama di buoni amministratori che fa perno la campagna dei conservatori. La slavina anti Labour è significativa anche per l’Italia. Tra i firmatari dell’appello c’è chi aveva votato laburista con Tony Blair e poi ha cambiato cavallo fondando la scelta su aspetti concreti della contesa. “In Italia ci si preoccuperebbe subito di attribuire un’appartenenza di parte se un imprenditore facesse un endorsement – dice Marco Piuri, responsabile per l’Europa del gruppo anglo-tedesco Arriva-Deutsche Bahn – In Gran Bretagna invece il sostegno esterno viene giudicato nel merito, non c’è mai una posizione rigida e tutto è possibile”. James Blitz, editorialista del Financial Times, quotidiano che sostenne la bontà di un sistema di finanziamento pubblico dei partiti inglesi per eliminare i sospetti sulle connivenze tra business e politica, dice che “storicamente i grandi imprenditori dicono di votare per uno o l’altro leader – la lettera non è una novità in sé – ed è stata una carta vincente per Blair e Thatcher. Ma non è ‘la’ carta vincente”. “La situazione è confusa, i sondaggi sono incerti, e c’è dibattito sul ruolo della morale in economia: i conservatori hanno trascurato temi sensibili per le persone comuni e qui i laburisti possono trovare spazio”, dice Blitz.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.