Dietro le statistiche sul lavoro c'è il revival della concertazione
Guardare al dito e non alla luna, dicono i saggi. La guerra sul lavoro va avanti e sul quotidiano confindustriale Sole 24 Ore approda almeno alla quinta puntata. Rischiando di incartarsi tra numeri e tabelle non confrontabili. Da una parte quelle del governo, cifre assolute di attivazioni di nuovi contratti e cessazioni di vecchi, divisi tra tempo indeterminato, determinato, collaborazioni, apprendistato e altre tipologie; numeri però che escludono per esempio la Pubblica amministrazione. Dall’altra parte c’è l’Istat, che prende a riferimento l’intera forza lavoro, definita da standard dello stesso Istituto, e poi distingue tra tasso di disoccupazione e tasso di occupazione con risultati, per i non addetti, spesso contraddittori. Il tutto su base ovviamente statistica. Istat e governo duellano un po’, soprattutto ora che si aspettano al varco gli effetti dei tagli di Irap, tasse e contributi, in vigore dal primo gennaio; ma soprattutto il Jobs Act con la mitica soppressione dell’articolo 18 – mitica, come vedremo, non per tutti – operativo dal 7 marzo. In altri termini c’è il dubbio che si parli più delle scommesse di Renzi che del lavoro. Il premier con il noto ottimismo che precede i fatti e dovrebbe produrli (per gufi e pennuti vari, un irrealistico wishful thinking), insomma #lavoltabuona, e a seguire il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, anticipano aumenti “impressionanti, a due cifre” degli occupati di gennaio-febbraio.
Uno studioso bravo ed eterodosso come Luca Ricolfi si intigna, lo scrive prima e lo ripete ieri: l’Istat smentisce Renzi con i propri numeri ma anche con una nota un po’ malandrina, certamente insolita, nella quale afferma che i dati del governo “non necessariamente significano nuovi occupati”. Seguono altre tabelle ministeriali il cui succo è che il saldo tra contratti attivati e cessati è però positivo, anche se siamo lontani dal nord Europa e dagli Stati Uniti. In questo carteggio si perde però di vista un elemento fondamentale: il lavoro non si crea per legge, non lo fa il governo – tranne che con le imbarcate di precari – ma lo danno le imprese se e quando ritengono che sia il momento di assumere. E gli imprenditori grandi e piccoli, da Sergio Marchionne al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi (il quale definì sgravi e taglio Irap “un sogno che si avvera”), alle tre imprese su quattro censite dall’Unione industriali di Torino, al 51,5 per cento delle aziende del sondaggio al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, e giù a scendere: tutti a manifestare l’intenzione di aumentare gli occupati, a prevedere che l’Italia intera faccia altrettanto. E dunque toccherebbe a loro, ora che gli sgravi ci sono, il Jobs Act pure. E’ un po’ surreale che proprio il quotidiano degli imprenditori parli di “rilancio che non c’è”; forse retaggio involontario di un’idea dell’occupazione decisa nella Sala verde di Palazzo Chigi, quella delle maxi-riunioni sindacali, la Mecca della concertazione. E magari involontario neppure troppo, se come ha notato il Foglio di ieri qua e là nei rinnovi contrattuali riemergono le vecchie garanzie assai gradite ai sindacati (anche a tutela della loro immagine mediatica). Ovvio che la farmaceutica Novartis, multinazionale con quartier generale in Svizzera, a livello aziendale può decidere come crede (il settore chimico, da questo punto di vista, è per storia e tradizione più agile rispetto agli altri comparti).
[**Video_box_2**]Ma che dire del recentissimo contratto di categoria dei bancari? I dipendenti che risultino in eccesso per fusioni e ristrutturazioni, e assunti da newco, continueranno ad avere l’articolo 18. “Una mela avvelenata”, come la definisce – in ottica opposta – l’ex segretario Fiom Giorgio Cremaschi. Di fatto, visto che fusioni e accorpamenti tra istituti bancari sono in vista, anziché battere la strada della flessibilità si lasciano presagire licenziamenti collettivi con le tutele precedenti a carico dello stato; cioè una delle richieste al governo della sinistra dem, il cui rifiuto aveva provocato le critiche di Laura Boldrini. Un po’ di vecchia concertazione, insomma, spunta nella guerra dei numeri sul lavoro, dove il lavoro è messo all’ultimo posto.