Un sud drogato da politica e spesa pubblica
Cosa c’è dietro il caso di Ischia? Cosa c’è dietro una classe dirigente meridionale spesso alle prese con inchieste di carattere penale? Cosa non va in questo mondo ingessato, che non offre ai giovani quelle opportunità che invece essi sanno spesso cogliere con facilità quando si spostano in Germania, in America o anche soltanto al nord?
Sul Corriere del Mezzogiorno, Nicola Rossi riespone una tesi difficile da confutare e cioè che le difficoltà del sud sono in primo luogo da ricondurre a una spesa pubblica abnorme e alla politicizzazione che ne discende. Cose simili, con Piercamillo Falasca, avevo sostenuto otto anni fa in un volume (Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno, edito da Rubbettino) in cui tra le altre cose si affermava che il Mezzogiorno può cambiare se è costretto a fare da sé e quindi ad allargare gli spazi del privato. Perché oggi la spesa pubblica meridionale è abnorme in quanto è in larga misura finanziata da altri.
Secondo le ricerche di Gian Angelo Bellati dell’Unioncamere veneta vi sono realtà come la Lombardia, l’Emilia e il Veneto che danno molto più di quanto non ricevano in servizi pubblici locali e nazionali. Nel quinquennio 2008-2013 la Lombardia ha perso circa 6.200 euro pro capite ogni anno, mentre emiliani e veneti circa 4.200 e 3.800 a testa. Questo significa che, in media, in un solo lustro una famiglia lombarda di cinque persone avrebbe visto scomparire 155 mila euro. In compenso, ogni siciliano ha potuto contare su una spesa aggiuntiva di circa 2.900 euro all’anno, ogni molisano di circa 2.500 e ogni siciliano di circa 2.000.
Questa redistribuzione toglie ricchezza al nord (regioni autonome a parte), ma soprattutto devasta il sud, che dipende dalle decisioni di amministratori e burocrati. La spesa diventa a tal punto importante che ogni apparato pubblico si orienta sempre più a servire gli addetti e sempre meno il pubblico. Basti pensare al paradosso di costi per ospedali e servizi medici alle stelle, accompagnati da un massiccio “turismo sanitario” che obbliga tante famiglie del sud a farsi curare altrove.
La crescita della spesa produce una progressiva centralità degli interessi di dipendenti e fornitori, e una marginalizzazione di utenti e pazienti. Non si spiegherebbero i dati abnormi sui lavoratori pubblici (la Sicilia ha cinque volte gli addetti della Lombardia) e anche quelle disparità degli oneri sopportati dalle amministrazioni. Il fatto che in Sicilia una siringa costi 10 centesimi in più che in Veneto non fa sì che la sanità siciliana sia migliore: è anzi vero il contrario. Il risultato è che dieci anni fa (ma è difficile che siano molto mutati) un euro di spesa pubblica in Calabria costava alla popolazione locale 0,27 euro e in Lombardia 2,45 euro.
[**Video_box_2**]Da tempo si propongono costi standard, ma è una soluzione dirigista, essenzialmente tecnocratica. È invece necessario avviare un processo di responsabilizzazione che obblighi ognuno a fare da sé. Le diverse comunità, specie al sud, devono vivere dei soldi che i loro cittadini versano, mentre gli amministratori devono rispondere ai propri contribuenti dell’uso che fanno delle risorse tolte. Un sud drogato dai trasferimenti e da una ricchezza prodotta altrove è un sud che continuerà a selezionare una pessima classe dirigente, ma una vera autonomia (anche fiscale) di ogni città e regione comporta pure concorrenza tra sistemi e governi locali costretti a operare al meglio.
Capitali e imprese devono poter scegliere: devono sapere che stare la Basilicata può costare meno e magari anche offrire servizi migliori di quelli della Calabria, che Salerno non ha le medesime imposte di Napoli. Solo questa concorrenza tra amministrazioni che vivono del loro, e spendono solo quanto ottengono con tasse locali, può permettere di entrare in un circolo virtuoso.
Le cifre che descrivono il presente sono spietate e banali. La verità è che sono il frutto di un assistenzialismo che non si ha il coraggio di abbandonare. Quando questo avverrà sarà sempre troppo tardi.