Ricognizione globale sugli invitati al gran ballo delle fusioni
Roma. Bruce Wasserstein, definito dal settimanale Economist come uno dei più influenti e capaci banchieri di Wall Street nel fare (e disfare) operazioni di fusione-acquisizione (Merger and Acquisition), era particolarmente guardingo riguardo il suo settore operativo. I grandi accordi, diceva, attirano traffichini e baldanzosi soggetti mediocri. E poi, aggiungeva, sebbene le acquisizioni spesso creino valore sia per l’azienda che compra sia per quella aggredita comportano anche dislocazioni di asset, pene per i dipendenti e crisi esistenziali per i top manager. Le regole dell’attrazione del business definite da Wasserstein, attivissimo tra gli anni Ottanta e Novanta (è scomparso nel 1999), paiono tuttavia cambiate, almeno in superficie e almeno a osservare gli ultimi importanti accordi offerti dalle cronache finanziarie. Dopo anni di bozze preliminari, poi spedite al macero, riunioni inconcludenti dei board, con immancabili lanci di stracci, la fine della penuria dei mega-deal sembra conclusa. I primi tre mesi di quest’anno rappresentano il trimestre più proficuo per le fusioni dal 2007, l’anno migliore (con operazioni per complessivi 4.300 miliardi di dollari). Il valore dello operazioni annunciate, fino ad aprile, supera i 1.000 miliardi di dollari e di questo passo, se la macchina non s’inceppa, verranno superati i volumi toccati nel 2014.
Petrolio, la fine della siccità. Il dimezzamento del prezzo del greggio dal luglio scorso a oggi è stato provvidenziale per motivare l’anglo-olandese Shell ad aggredire la più piccola Bg offerendo la cifra record di 64 miliardi di euro. Il deal, dalle caratteristiche non ostili per Bg, rappresenta la più grande fusione nel settore degli idrocarburi del decennio e rafforza la posizione di Shell nel comparto del gas naturale, in particolare sul mercato brasiliano, e anche nell’ingegneria per l’estrazione in mare. Dei due ceo rimarrà al comando solo quello di Shell, Ben van Beurden, mentre Helge Lund di Bg (“sono arrivato per ricostruire la società non per venderla”, ha detto con rammarico) lascerà una volta chiusa l’operazione all’inizio del 2016. Sarà gustoso capire come si fonderanno le due anime aziendali, una più conservativa, quella degli anglo-olandesi, e un’altra più aggressiva, quella dei britannici. Shell assieme a Bg, è in predicato di creare – salvo incidenti – la società più capitalizzata della Borsa di Londra, e potrà avvicinare la rivale americana ExxonMobil e guardarla quasi dalla stessa altezza. Per tutti gli altri operatori la domanda rilevante non è più “se la ristrutturazione globale ci sarà – come scriveva ieri il Financial Times – ma capire chi sarà il prossimo che rischia o verrà definitivamente aggredito”. Chevron ha la possibilità di rastrellare società indipendenti americane. L’italiana Eni – a cui ieri il Financial Times ha dedicato un approfondimento sul suo ruolo trasversale in Libia – risulta appetibile agli occhi degli osservatori, anche per la sua solidità, sebbene resti un boccone difficile per i potenziali acquirenti.
Le manovre nell’ingegneria energetica. A novembre le americane Halliburton e Baker Huges annunciavano di avere raggiunto per fondersi nei mesi successivi. Halliburton e BakerHughes sono rispettivamente la seconda e la terza compagnia di servizi per l’industria petrolifera (macchine per l’estrazione, sistemi di prospezione e ricerca) per ammontare di ricavi. Il matrimonio delle due società texane è al vaglio dell’Antitrust americana: Halliburton dovrà cedere delle partecipazioni prima di convolare a nozze. In ogni caso si tratta di una delle più grandi fusioni in campo energetico degli ultimi anni con un valore da 38 miliardi di dollari (ci sono stati solo 11 accordi in questo settore che hanno superato i 20 miliardi di dollari dal 1995, stando alla banca dati Dealogic). L’unione tra Halliburton e BakerHughes creerà una società più piccola rispetto al colosso americano, ma di conio francese, Schlumberger, che opera in Italia dal 1951 con una sussidiaria, ma ne insidierà il dominio globale.
[**Video_box_2**]Le baruffe tra top manager del cemento. L’ego smisurato dei ceo, più che ogni inghippo regolatorio, è una minaccia per un matrimonio sereno. La fusione tra pari delle due agenzie pubblicitarie Publicis e Omnicom, valore 35 miliardi di euro, è finita in lacrime perché una cogestione tra Maurice Lévy (Publicis) e John Wren (Omnicom) era impraticabile: differenti personalità e spiccata ambizione di comando. Sembra invece in salvo la fusione tra le multinazionali del cemento Lafarge (francese) e Holcim (svizzera) ma, anche qui, il collasso è stato sfiorato più volte in queste turbolente settimane. Gli svizzeri volevano evitare che il capo di Lafarge, Bruno Lafont, arrivasse a guidare la nuova creatura (si accontenterà del ruolo di copresidente). I francesi hanno quindi proposto Eric Olsen, formatosi nella divisione americana di Lafarge, come capo esecutivo. Ora gli azionisti della svizzera Holcim – nella compagine ci sono anche i russi di Eurocement – possono approvare oppure far deragliare un accordo da 41 miliardi di euro.
C’è posta da Mario Draghi dalla FedEx. L’apprezzamento del dollaro contro l’euro, incentivato dall’espansione monetaria della Banca centrale europea, ha fornito il guizzo necessario all’americana FedEx per lanciare un’offerta da 4,4 miliardi di euro per comprare l’olandese Tnt Express. Un’operazione transatlantica in contanti che permetterà a FedEx di mangiarsi la sofferente rivale europea rimescolando i rapporti di forza. Tnt aveva masticato amaro da quando l’Antitrust aveva negato la fusione con Ups nel 2013. In questo caso gli analisti non vedono obiezioni vincolanti. La somma delle quote nel mercato europeo delle spedizioni di FedEx (5 per cento) e Tnt (12 per cento) s’avvicinerebbe a quelle di Deutsche Post/Dhl (19) e Ups (16). L’ambizione di FedEx, reduce dalla conquista della francese Tatex nel 2012, è contendere il dominio agli operatori nazionali Deutsche Post (Germania), Royal Mail (Regno Unito) e laPoste (Francia) in un mercato dato in crescita sia per valore degli scambi (da 62,5 a 70 miliardi nel 2018) sia per numero di consegne. Avvantaggiarsi nell’e-commerce, dove spadroneggia Amazon, è un altro obiettivo dichiarato di FedEx.
tra debito e crescita