Sergio Marchionne

Senza Marchionne produzione a picco

Mario Sechi
L'Istat divulga i dati sulla produzione industriale. Si spegne l’auto? Crolla tutto quel poco che resta in una nazione ad alto tasso di deindustrializzazione e basso tasso di neuroni. Un gigante tra i nani: Sergio Marchionne

C’è una Terra di Mezzo dove i raccolti sono scarsi, il mercato angusto e i mezzi inadeguati. Poi c’è un luogo dove la produzione è tornata a fiorire e gli strumenti parlano la lingua dell’innovazione globale. E’ il Paese a due velocità, ma non è più solo un tema geografico, Nord/Sud, questione settentrionale e meridionale. No, il dilemma è quello del “modello”. Di Paese, di sistema industriali, di relazioni, di visione del domani. La foto dei dati della produzione industriale di febbraio scattata dall’Istat è in movimento ma chiara e allarmante: senza il contributo delle automobili (+ 16,3 per cento) e della raffinazione di prodotti petroliferi (+12,2 per cento) la produzione sarebbe colata a picco. L’autotrasporto e i settori collegati sono ossigeno vitale. Si spegne l’auto? Crolla tutto quel poco che resta in una nazione ad alto tasso di deindustrializzazione e basso tasso di neuroni. In questo scenario, nella camera oscura italiana emerge la foto che ritrae un gigante tra i nani: Sergio Marchionne.

 

Signori, nel dato anemico della produzione di febbraio c’è una notizia. Nonostante i landinismi, i civatismi, i salvinismi, i fittismi, i baci sindacali sui palchi che celebrano il tanto peggio tanto meglio, i tavoli apparecchiati e rovesciati, la politica che si lambicca sul da farsi e soprattutto sul disfarsi, l’Italia produce auto. E rispetto al passato fatto di un’azienda (la Fiat) che faceva trading con lo Stato, oggi abbiamo un’impresa globale che le esporta sui mercati mondiali.

 

Si discute ancora di lui come del marziano da rispedire su Marte, l’amerikano, Marchionne. Peccato, cari rottamati, rottamandi e rottamatori, non avete capito niente. Che cosa era la Fiat prima dell’arrivo di Marchionne? Lo facciamo dire a lui: “Fatturava 27 miliardi di euro, di cui oltre il novanta per cento in Europa. I dipendenti erano di poco superiori a centomila, di cui il 70 per cento in Europa e più della metà in Italia”. Era un’azienda con un rischio geopolitico da film di Dario Argento, un’impresa cotta alla brace, così descritta da Marchionne in una lettera ai dirigenti del Gruppo Fiat datata 25 settembre 2012: “Lottavamo contro il fallimento, la svendita, la consegna dell’azienda nelle mani delle banche e dello Stato. Lottavamo contro l’estinzione della Fiat. C’è stato un punto, allora, da cui preso vita la rinascita. E’ stato il momento in cui abbiamo iniziato a riconoscere che il destino era nelle nostre mani, ce ne siamo assunti la responsabilità e nel giro di poco tempo abbiamo sconfitti i pessimisti e realizzato un turnaround che credo finirà nei libri di storia”.

 

La storia non mente. Mai. Mentre lo Stato si dibatteva nella sua crisi da debito pubblico e spesa fuori controllo, Marchionne manteneva la centralità degli stabilimenti italiani e li usava come piattaforma per il lancio dei prodotti in tutto il mondo. Tre sono state le mosse chiave di Marchionne.

 

Prima mossa: puntare sui marchi di fascia alta come Maserati, acquisendo lo stabilimento ex Bertone a Grugliasco dove, dopo cinque anni di cassa integrazione, oggi lavorano tremila persone. Maserati ha venduto 37 mila auto nel 2014. Sono numeri impressionanti (+136%). E cresceranno ancora. A fine anno arriverà il Suv Levante e poi l’Alfieri che verrà prodotto a Mirafiori.
Seconda mossa: fabbricare in Italia la Jeep. A fine febbraio erano state prodotte 45mila Jeep Renegade e 15mila pezzi della 500X (Il piccolo Suv Fiat lanciato a metà febbraio). Si punta a una produzione totale nell’anno di circa 390mila pezzi. Ogni giorno un treno parte per Civitavecchia, da dove una nave a settimana che porta 3mila Renegade negli Usa. A Melfi, dove si produceva soltanto la Grande Punto, ai seimila dipendenti si sono aggiunte 1500 assunzioni di giovani più 500 cassintegrati da Pomigliano e Cassino.

 

Terza mossa: l’Alfa torna in America. A giugno ci sarà la presentazione a Milano della Nuova Alfa, a cavallo tra fine anno e primo trimestre 2016 produzione e lancio. E’ stato firmato l’accordo per cassa integrazione per 4mila dipendenti di Cassino che oggi fa solo la Giulietta, domani sarà una fabbrica per il mercato mondiale. Obiettivo: vendere 400mila auto nel 2018, otto modelli.

 

L’auto è uno straordinario moltiplicatore di ricchezza e di posti di lavoro. “Per sette”, ricorda Marchionne, questo è il rapporto quando il contagiri va a mille. Uno spot di tanti anni fa diceva: fatti, non parole. Eccoli. La Sevel in Val di Sangro (quella che produce il Nuovo Ducato) ha sfornato pochi giorni fa il 5milionesimo veicolo della sua storia. Capacità produttiva 1000 veicoli al giorno. Seimila dipendenti. A Termoli Marchionne ha annunciato la produzione di due motori (uno progettato dalla Ferrari) per le nuove Alfa. Altri duemila posti di lavoro.

 

A Pomigliano la produzione di Panda occupa duemila dipendenti, si sono fatti alcuni sabati di lavoro straordinario per picchi di richieste. La Fiom ha scioperato, con un grande risultato dell’ormai mitico Landini: hanno aderito quattro delegati. Ma tranquilli, con questi successi il salotto dei talk show è assicurato a lungo. Audience (poca) e sostanza zero.

 

Fabbrica. Indotto. Lavoro. Produzione. E’ una catena. Nel porto di Civitavecchia cinquecento persone sono impegnate per le auto di Melfi. E’ l’operazione logistica targata Jeep Renegade. La compagnia Grimaldi ha ordinato cinque nuove navi in previsione del lancio di Alfa Romeo in America. Cinque navi, settemila vetture ciascuna.

 

[**Video_box_2**]Si chiama grande industria. E con questa si fa la differenza tra una potenza e un piccolo calibro. Sparano con la pistola ad acqua. Chi vaneggia un’Italia che vive di spaghetti e mandolino si rassegni. Senza l’industria diventiamo poveri e marginali, senza aziende globali si sta tra i nani a bere limoncello mentre gli altri fanno grandi opere, forgiano acciaio e immaginario (ma il ministro Del Rio in bicicletta di che parla quando mette il freno alle grandi opere?). Si chiama politica industriale e per farla occorre guardare lontano. La competizione è feroce. Un ring dove si danno colpi sotto la cintola. Il Wall Street Journal raccontava che a Toledo, in Ohio, storico stabilimento che produce la Jeep, vogliono mantenere la produzione e sono pronti a scucire centinaia di milioni di dollari di incentivi per il nuovo stabilimento che Marchionne ha in mente. Follow the money, segui i soldi.

 

Flashback. Centro Congressi del Lingotto, 4 aprile 2012, assemblea degli azionisti Fiat. Marchionne racconta il “grande disegno di d’integrazione tra Fiat e Chrysler che ci sta portando alla creazione di una casa automobilistica globale”. In un Paese afflitto dal piagnonismo acuto e dal peggiorismo in servizio permanente effettivo le parole di Marchionne furono prese come un disegno chimerico. Tre anni dopo, ecco farsi realtà il disegno dell’uomo imported from Chieti: la nascita di FCA, le vendite record negli Stati Uniti, il beneficio per gli stabilimenti italiani, il balzo del marchio Maserati, la conferma del miracolo chiamato Ferrari e il rilancio di Alfa Romeo ormai al traguardo. Il gigante. E i nani.

 

E’ un’istantanea che racconta il futuro possibile e il presente impossibile. Serve un cambio di marcia vero, non basta il solo Jobs Act. Non c’è domanda sufficiente. La produzione nei primi due mesi dell’anno è diminuita dell’1,1 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Gran parte dei settori ha il segno meno davanti. Male l’attività estrattiva (-13,4%), così pure il tessile (-7,7%) e la metallurgia (-4,9%) il resto è crescita debole, incerta, anche la chimica – un indicatore di ripresa - è ferma al palo (-0,6%). Eccola, la realtà. Volete tenere fede al Def senza coraggio? Tanti auguri. Che si fa? Chiedete scusa a Marchionne. E copiatelo, se vi riesce.

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