Nozze neoglobal
Roma. Ammettiamolo: molti tra i non addetti ai lavori, e qualcuno tra gli addetti, pensavano che la Nokia fosse più o meno defunta. Buona al più come testa di ponte europea degli smartphone Microsoft e del sistema operativo Windows Mobile, dopo che nel 2013 il colosso di Redmond ha comprato la divisione dei mitici cellulari degli anni Novanta. Diversi commentatori non solo predissero che il declino di Nokia avrebbe prodotto l’ennesima recessione della Finlandia, ex allieva modella della Ue, ma soprattutto lo descrissero come parte di un destino comune ai simboli dell’industria manifatturiera dell’Europa sempre più preda di capitali (speculativi, ovviamente) americani e orientali. Ora, contrordine. La Nokia, con i soldi incassati da Microsoft e dalla tedesca Siemens che ne controlla il 50 per cento, è risorta come player mondiale di reti di comunicazione, soprattutto wireless. E si compra per 15,6 miliardi di euro la franco-americana Alcatel-Lucent, con sede a Parigi. Dunque si è trattato anche di vincere lo statalismo francese, oggi un po’ attenuato dal governo di Manuel Valls. La nuova conglomerata avrà management finlandese, sede a Helsinki, stabilimenti sparsi tra Europa e Stati Uniti, capitali di mezzo mondo, e un amministratore delegato, quello di Nokia, nato, cresciuto e laureato in India: il 47enne Rajeev Suri. L’alleanza punta al secondo posto mondiale nelle infrastrutture di rete, dietro alla americana Cisco, battendosela con un’altra vecchia gloria dei telefonini, la svedese Ericsson. Quale bandiera piantare su questa augurabile success story? Finlandese, americana, tedesca, francese? E hanno ancora senso i vessilli nazionali?
“Abbiamo tecnologie estremamente complementari e il portafoglio completo necessario per consentire la connessione internet e la transizione al cloud – ha detto ieri il ceo di Nokia, Suri – Avremo una forte presenza in ogni parte del mondo, comprese le posizioni di primo piano negli Stati Uniti e in Cina”.
La vicenda Nokia-Alcatel-Lucent è un esempio di quel processo tecnologico e finanziario già definito “a-local”: non si tratta di delocalizzazione (mero trasferimento di macchinari dove la manodopera costa meno), né di globalizzazione tout court, perché la strategia non è quella di seguire i capitali ma lasciare la produzione, le conoscenze e la ricerca dove funzionano. Ricorda nulla? Massì: la Fiat-Chrysler, che magari domani non sarà più neppure Fiat, ma che polverizzata tra Italia, Europa e Stati Uniti ha rilanciato con percentuali a due cifre la nostra produzione automobilistica. Come quantità certo, ma anche come qualità.
[**Video_box_2**]L’indotto dell’auto moltiplica per sette o giù di lì i posti di lavoro di ogni impianto a quattro ruote: oltre a questo, la cura Marchionne ha consentito di sviluppare la nuova piattaforma Jeep Renegade-brand 500, i nuovi motori Alfa Romeo-Ferrari, il nuovo cambio automatico elettronico a nove rapporti Chrysler su licenza della tedesca Zf. A ben vedere anche nella cessione alla ChemChina della Pirelli, la vera garanzia – più che dalla riserva del 10 per cento di azioni per mantenere in casa la sede, la ricerca e il management – potrebbe essere data dalla scissione italiana dei pneumatici da corsa e di alta gamma, da quotare a parte, e soprattutto dal numero di brevetti Pirelli, secondi in Italia dietro alla Telecom, prima del Consiglio nazionale delle ricerche.
“Non ha più senso parlare di paesi”, dice Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia. “Ormai il confronto è tra piattaforme produttive e soprattutto sull’innovazione tecnologica”. Si tratta dei due fattori che hanno convinto anche il magnate indiano Ratan Tata a lasciare in Inghilterra la Jaguar e la Land Rover, ottenendo cinque anni consecutivi di aumento delle vendite. “Anche le policy dei vari paesi dovranno misurarsi su questi cambiamenti”, prosegue Crapelli. “Le politiche industriali difensive su base nazionale non hanno più senso”. Avvertire Camusso & Landini, oltre ai variegati sacerdoti del capitalismo di stato.