Al simposio dei petrolieri l'unica sicurezza è l'incertezza totale
Roma. Dal 1983, all’indomani della seconda grande crisi petrolifera dal Dopoguerra, i colossi dell’industria degli idrocarburi si incontrano a Houston in Texas per l’evento ora noto come Ihs CeraWeek energy conference – paragonabile per importanza al World economic forum di Davos in Svizzera – per discutere di prospettive del settore, condividere contatti, stringere mani e intavolare accordi. La settimana di simposi, chiusa ieri, è stata particolare perché, dopo anni di bonanza, aveva come matrice l’incertezza generale e diffusa sul futuro della materia prima che fa girare il mondo visto il dimezzamento del prezzo del greggio rispetto alla scorsa estate (è arrivato a quota 50 dollari al barile per poi risalire a 63 a inizio marzo). Sia le major, tra cui Bp, ExxonMobil, Lukoil, Eni, sia i piccoli produttori indipendenti si attrezzano per difendersi dai prezzi bassi ma navigano a vista.
I top manager dell’industria hanno confermato misure d’austerità interne – in media una riduzione degli investimenti in esplorazione/estrazione del 10-15 per cento – per affrontare un periodo prolungato di prezzi depressi. Ad esempio, Halliburton e Schlumberger, behemoth dell’ingegneria estrattiva, hanno pianificato tagli al personale e alle attività. La sensibilità sulle prospettive può variare e c’è chi si lascia andare a previsioni gravi. “Uno può anche sperare che si arrivi ai 75 dollari al barile, ma penso ci si debba preparare a prezzi anche più bassi”, ha detto a Reuters Stephen Chazen, ceo di Occidental Petroleum (Oxy), una delle prime società di idrocarburi americane per capitalizzazione di Borsa. Ci sono tuttavia delle differenze enormi tra le attese degli addetti ai lavori e quelle della comunità finanziaria. A Wall Street, visto il rimbalzo del gatto morto di marzo e l’interesse per il settore dei grandi fondi di investimento, come Blackstone, si scommette su una rapida risalita; da qui a un anno.
Gli operatori cercano di annusare l’aria e la conferenza texana è anche servita a ottenere qualche insight. Non tutti colpevolizzano il cosiddetto cartello dei paesi produttori Opec, guidato dall’Arabia Saudita, per non avere tagliato la produzione provocando un eccesso di offerta e ingenerando un tracollo dei prezzi. Rex Tillerson, ceo dell’americana ExxonMobil, ha detto chiaramente che la mossa dell’Opec non mirava a colpire i produttori americani di shale oil e gas – come spesso si è detto e scritto – ma, anzi, aveva la funzione “importante” di testare quale fosse il prezzo di riferimento del mercato al netto dell’influenza degli “swing producer”, le oligarchie petrolifere.
Allo stato attuale è però l’incertezza la chiave d’interpretazione condivisa. Il ceo di Eni, Claudio Descalzi, alla vigilia dell’evento in un’intervista al Financial Times, ha riproposto l’idea di convincere Stati Uniti, Russia, paesi Opec e operatori privati a “cooperare” per evitare il ripetersi di eventi “destabilizzanti” in futuro. Sarà ovviamente difficile mettere d’accordo un cospicuo numero di attori soprattutto perché le grandi case ora possono approfittare dell’instabilità per aggredire i rivali deboli. Non a caso il ceo di Bp, Bob Dudley, a Houston, ha minimizzato il fatto che ci sarà un consolidamento massiccio del settore in conseguenza dei piani di ristrutturazione – opinione in realtà condivisa da molti esperti – visto che la compagnia inglese da lui guidata è una delle possibili prede.
Una convinzione che invece va consolidandosi è che la rivoluzione dello shale – rivoluzione germogliata grazie all’habitat finanziario, regolatorio e politico americano ma che non ha attecchito altrove nel mondo – ha avuto solo una pausa tecnica – le trivelle non pompano ai ritmi forsennati dell’anno scorso – ma resterà il fattore determinante per l’andamento del mercato negli anni a venire.