I campioni tedeschi alle prese con choc e mutazioni della locomotiva europea

Ugo Bertone
In Volkswagen comandano sindacati e land. Deutsche Bank accusa le sanzioni regolatorie ma vuole fare concorrenza a Goldman Sachs. I dolori di Allianz generati dal Qe di Draghi. E l'Energiewende (rivoluzione verde) onerosa e tradita che preoccupa Rwe.

Ferdinand Karl Piëch, l’ultimo dei baroni dell’industria tedesca, continua a schiumare di rabbia nella sua villa di Salisburgo: il suo abbandono della presidenza di Volkswagen non si è tradotto in una caduta degli dèi, bensì in una spumeggiante corsa agli acquisti in Borsa di finanzieri per niente impressionati dal fatto che al posto del nipote di Ferdinand Porsche da ieri al comando ci sia il sindacalista Berthold Huber di Ig Metall, la centrale che, assieme al land della Sassonia, controlla 12 dei 20 membri del consiglio del leader europeo dell’auto.

 

Piovono invece vendite pesanti come siluri su Deutsche Bank, l’ammiraglia della finanza tedesca accusata dalle autorità americane e britanniche, di avere protetto fino all’ultimo le malefatte sul Libor dei suoi trader: un comportamento degno degli infidi funzionari di Atene piuttosto che dell’istituto simbolo dell’integrità tedesca. Ma a spiegare la reazione del mercato, che in una sola giornata ha tagliato più o meno di mezzo miliardo il valore del titolo, non è tanto il calo dell’utile del trimestre, più o meno dimezzato a 559 milioni, o l’impatto della maxi multa di 2,5 miliardi di euro. Semmai, gli analisti sono scettici di fronte alla scommessa di trasformare a tappe forzate la banca, centauro a metà strada tra il modello renano e la finanza globale, in un colosso modello Goldman Sachs o Jp Morgan: tanti titoli strutturati, niente sportelli. Questo e altro è capitato ieri alla Deutsche Börse, palcoscenico della metamorfosi in atto della locomotiva d’Europa e dei suoi campioni.

 

Difficile immaginare condizioni migliori per l’economia tedesca stimolata dall’euro debole e dal costo del denaro vicino allo zero, come dimostrano i risultati record del made in Deutschland drogati dal rimbalzo del dollaro forte. Eppure proprio adesso si moltiplicano i segnali di cambiamento di fronte a problemi vecchi e nuovi: il tonfo dei rendimenti dei Bund sotto lo zero rappresenta un bel problema per le assicurazioni, Allianz in testa, che per contratto sono obbligate a garantire alle polizze vita interessi ormai insostenibili.

 

O gli effetti perversi della rivoluzione verde (Energiewende) che, oltre a sussidiare le rinnovabili, ha salvaguardato l’uso del carbone, decisione difficile da modificare salvo grossi problemi per le centrali di Rwe. Non è facile trovare un fil rouge comune alle varie capitali del business d’oltre Reno. Salvo la convinzione che i grandi cambiamenti è meglio affrontarli nei momenti buoni piuttosto che sotto la spinta dell’emergenza. Vedi Deutsche Bank che, in un colpo, ha deciso di liberarsi della rete di 1.100 sportelli acquisita dall’amministrazione postale alla vigilia della crisi di Lehman Brothers, e di tagliare buona parte delle attività più rischiose, dalle speculazioni sulle materie prime e su derivati vari.

 

[**Video_box_2**]Una ristrutturazione monstre, non solo per le dimensioni dell’operazione pulizia (3,9 miliardi) ma soprattutto per il cambio di filosofia: saranno ceduti asset per 200 miliardi di euro, ma parallelamente l’investment bank tedesca farà shopping di azioni per 50-70 miliardi, sfidando così le banche d’affari americane che sono dominatrici quasi incontrastate del mercato. “Sarà una partita a scacchi in cui dovremo far arretrare cavalli e alfieri per poi sistemarli in posizioni che ci garantiscano buoni utili”, dice Anshu Jain, il banchiere indiano scelto dagli azionisti tedeschi per scuotere le fondamenta del capitalismo.