Manovre anti Jobs Act
Roma. Matteo Renzi e il suo governo della Via Paal non penseranno sul serio di aver abrogato (in massima parte) l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970? Perché prima che in Italia sia ammesso licenziare un singolo dipendente, nel caso di carenze disciplinari o difficoltà economiche dell’azienda, senza passare per il vaglio preliminare di un giudice del lavoro, venderemo cara la pelle. E’ questo il messaggio che sembra arrivare da più parti e cui l’esecutivo dovrebbe prestare ascolto. Non per soddisfare i fautori della controriforma – visto che una maggiore flessibilità del mercato del lavoro era stata lungamente attesa oltre che sicuramente necessaria – ma per approntare opportune contromisure e non assistere inerti all’eventuale svuotamento del Jobs Act.
Passino le critiche ideologiche, in questa fase un po’ minoritarie, confinate nella “Cosa sociale” a trazione Fiom che va e viene in base alle esigenze dei conduttori televisivi. Pure le contestazioni dei centri sociali resteranno a lungo con noi, lo sa bene il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che comunque ieri ha rivendicato come “i primi numeri ci dicano che siamo di fronte a un cambiamento importante, per cui molte decine di migliaia di giovani che avevano contratti precari stanno avendo contratti a tempo indeterminato”. Stabilizzazioni che sono frutto pure dell’incentivazione fiscale, non c’è dubbio. Ma il Jobs Act, con il superamento del totem ideologico del posto a vita natural durante per sempre meno persone, avrà bisogno di più di tempo per mostrare i suoi frutti. A meno che poteri (presunti) forti non inizieranno a seguire l’esempio dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana che – con la Cgil in festa – ha siglato un rinnovo contrattuale stabilendo fin da ora che i bancari manterranno il vecchio contratto, con annesso articolo 18, anche nel caso la loro banca venisse scissa e ceduta, o fusa in una nuova realtà societaria. Tanto ci sono i licenziamenti collettivi, verrebbe da malignare analizzando il recente passato del comparto.
[**Video_box_2**] Comunque il rifiuto de facto del Jobs Act ricorda in nuce la ritirata della Confindustria montezemoliana che – in nome di una malintesa “pax sociale” – abbandonò Cav. e sindacati riformisti che nel 2002 avevano firmato il Patto per l’Italia. E come se questo e altri casi di svuotamento della riforma dall’interno non bastassero, ecco che il giuslavorista Giampiero Falasca sul Sole 24 Ore segnala – a pagina 13 però, nell’inserto Norme e Tributi – una sentenza del tribunale di Milano che pare scritta ad hoc per “neutralizzare” il Jobs Act. I fatti: una società ferroviaria, dopo aver contestato al dipendente di “non aver vigilato in maniera adeguata sulle assenze e sui rimborsi spese del personale sottoposto al suo potere di vigilanza”, ha allegato un “lungo e dettagliato elenco delle anomalie” e ne ha chiesto il licenziamento per ragioni disciplinari. Il tribunale però, con creatività degna di miglior causa, ha ritenuto che le quattro pagine di dettagli non fossero sufficienti, perché l’azienda le aveva presentate come un’elencazione a titolo meramente esemplificativo. Il giudice del lavoro ha dunque ritenuto invalido il licenziamento e ha imposto il reintegro del dipendente per “insussistenza del fatto contestato”. Di fronte a un potere ermeneutico così spropositato che la magistratura si è autoattribuita (su tutto), un’altra legge non è sufficiente. Ma esserne consapevoli è un passo avanti.