Perché è irrinunciabile parlare dell'assetto della Banca d'Italia
Al direttore- L'assemblea della Banca d'Italia, convocata quest'anno il 26 maggio, si avvicina. Diversamente dal solito, l'argomento più delicato sarà non tanto l'analisi dell'economia proposta dal governatore quanto lo stato del capitale della Banca centrale, dopo la riforma varata nel febbraio 2014 e dopo i nuovi obblighi contratti con la Banca centrale europea durante il Quantitative easing.
Le banche privatizzate partecipanti al capitale della Banca centrale hanno tempo 24 mesi, e cioè fino al 2016, per vendere le loro quote che eccedano il 3 per cento del capitale. Per Intesa Sanpaolo e per Unicredit, i due maggiori "azionisti", si tratta di piazzare titoli per 5 miliardi, avendo in due i due terzi di un capitale fissato dallo statuto in 7,5 miliardi di euro. Le quote in eccesso, che restassero invendute a scadenza, perderanno il diritto al voto e, soprattutto, al dividendo. Feci presente sia al governo Letta sia al segretario del Pd sia ai colleghi in Senato che questo mercato delle quote studiato dal ministero dell'Economia e da Banca d'Italia non sarebbe decollato tanto facilmente. Non aveva e non ha senso investire in titoli che non danno diritti di governance e nemmeno garanzie di remunerazione. Come in altre occasioni, il dovere di sostenere comunque il governo fece premio sulla realtà. Adesso, dopo oltre un anno, non una quota e' stata ancora negoziata. Fossero davvero attraenti come era stato assicurato al Parlamento, le quote avrebbero avuto legioni di pretendenti. E invece niente... Nell'assemblea dell'anno scorso, la Banca d'Italia aveva assegnato alle quote una buona remunerazione: il 5 per cento al lordo delle imposte. Ma non aveva voluto, ne' avrebbe potuto, confermare il dividendo per il futuro. E nessuno allora ha comprato ciò che era in vendita. Vedremo quest'anno se un secondo, ricco dividendo farà fiorire il deserto.
Nel frattempo, come considereranno le banche quei titoli nei loro bilanci? Se le parole hanno un senso, le quote della Banca centrale dovrebbero essere considerate illiquide: come classificare altrimenti titoli negoziabili che non vengono negoziati e che sono destinati, di questo passo, a perdere il diritto al dividendo? D'altra parte, un compratore attento ai suoi denari, visto che non c'è ressa, formulerà la sua offerta a valori scontati dopo che si sarà materializzata la perdita del diritto al dividendo da parte dei venditori. Ma se dichiarassero illiquide le quote della Banca d'Italia che hanno in portafoglio, le banche dovrebbero pure svalutarle. Un orrore... Paradossalmente, per la Banca d'Italia, remunerare un capitale svalutato comporterebbe un'uscita minore per dividendi. Un tale risparmio, poi, verrebbe incontro alle raccomandazioni della Bce sulla necessità di ben capitalizzare la Banca centrale. Ma a un tale, ragionieristico vantaggio per la Banca centrale corrisponderebbe un buco miliardario e beffardo nei conti di Intesa Sanpaolo e anche di Unicredit, e dunque una sconfitta pesante per quanti nell'inverno 2013-2014 vararono o avallarono la riforma delle quote.
In questi giorni, immagino, la Banca d'Italia e il ministero dell'Economia faranno una silenziosa opera di moral suasion su fondazioni bancarie, casse previdenziali e fondi pensione affinché acquistino queste benedette quote. Ma in base a quali argomenti diventerà "sexy" ciò che fino a oggi è stato giudicato così poco attraente? Non dimentichiamo che nel 2003 le fondazioni bancarie rilevarono le azioni della Cassa depositi e prestiti in cambio della presidenza, di poteri di controllo e di precise garanzie di rendimento. E come si giustificherebbe una moral suasion di questo tipo da parte dei controllori sui controllati sotto il profilo dei conflitti d'interesse?
A questo punto, la riforma del capitale della Banca d'Italia, sostenuta dalla ragion politica dell'attimo fuggente (due settimane dopo, i ciechi sostenitori di Letta passarono armi e bagagli con Renzi), si salverà, se si salverà, lungo sentieri poco illuminati. L'appello alle fondazioni, in particolare, non esprime una gran coerenza. Ci si preoccupa se le fondazioni bancarie reinvestono nelle banche popolari, destinate a diventare ex, una parte del patrimonio oggi fermo nelle banche conferitarie, perché in tal modo le fondazioni medesime resterebbero concentrate nel settore bancario, e poi si spera che prendano le quote della Banca centrale come se questa con il settore bancario non avesse nulla a che fare. Mah. Azzerando la riforma del risparmio, che prevedeva la pubblicizzazione della Banca centrale, la politica italiana riconfermò con la forza della legge la privatizzazione de facto della Banca d'Italia determinata dalla privatizzazione delle banche quotiste, avvenuta negli anni Novanta.
L'operazione venne fatta a valori che non fossero troppo pesanti per le casse di palazzo Koch. Non si colse l'occasione per rimettere in circolo tutto il capitale in eccesso della Banca d'Italia, stimabile tra i 15 e i 23 miliardi, per costituire una "bad bank" per i crediti deteriorati o una banca di credito finanziario per gli investimenti. La Banca d'Italia, il governo e il Pd volarono basso, inseguendo l'obiettivo, non sempre scriteriato intendiamoci, di toccare il meno possibile il patrimonio netto reale dell'istituto. Peccato che ora l'Italia fatichi tanto a costituire la "bad bank" di cui avrebbe tanto bisogno per riaprire i rubinetti del credito: il tempo, si dice in Europa, e' scaduto. Peccato che questa difficoltà si manifesti mentre il bilancio della Banca centrale (comprese le riserve auree?) e' ora posto a garanzia degli acquisti dei titoli di stato italiani da parte della Bce nel quadro del Quantitative easing. Di nuovo, mah.
*Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria del Senato