Fede e capitalismo del re degli pneumatici, morto a 88 anni
Senza obbedire alla realtà non si diventa grandi. La lezione di Michelin
“Non c’è dipendente o padrone, ognuno dipende dall’altro, in fabbrica, e tutti insieme dipendiamo dagli altri fattori, dalla materia prima innanzitutto”. Con la morte a 88 anni di François Michelin, mercoledì pomeriggio, se n’è andato uno degli imprenditori che più ha innovato e creato lavoro in Francia nel secolo scorso. Se gli pneumatici del grasso omino bianco Bibendum sono conosciuti in tutto il mondo lo si deve principalmente a François, che ereditò negli anni Cinquanta un’impresa famigliare e la trasformò in un grande gruppo internazionale. Una figura per molti versi simile a quella di Michele Ferrero, scomparso poche settimane fa. Entrambi orfani da ragazzi, hanno saputo far crescere le loro imprese con intelligenza, capacità e visione. Entrambi hanno tragicamente perso il figlio che avrebbe dovuto guidare l’azienda dopo di loro, e tutti e due consideravano la fede cattolica il punto di partenza per giudicare e vivere il lavoro e la vita quotidiana. Intervistato da Paris Match nel 2013, François Michelin spiegò così il fondamento del suo agire e fare impresa: “Tutto quello che si costruisce crolla, non resta niente. E allora si pone la domanda a Dio e si capisce che la risposta è da un’altra parte”. Raccontava di essersi confrontato con il marxismo e la filosofia, per poi accorgersi che “soltanto il cristianesimo ci dà la capacità di mettere le cose sempre in positivo”, come raccontava ad Avvenire qualche anno fa. Non un baciapile bigotto, ma un capitalista realista (“I soldi stanno a un uomo come un pianoforte a un pianista”, diceva ancora a Paris Match). Ciò che infatti colpiva di Michelin era il suo giudizio intelligente e originale sulla realtà, che si trattasse di discutere con i sindacati o giudicare la politica industriale del suo paese.
[**Video_box_2**]A differenza degli alti dirigenti della sua azienda, aveva scelto di avere il suo ufficio in fabbrica, accanto alla catena di montaggio, e non a Parigi: “Quando viene voglia di mollare tutto mi basta guardare le donne e gli uomini che lavorano per capire che ne vale ancora la pena”, diceva. Ancora a Paris Match spiegava che tra le cause della crisi di fiducia che colpiva tanti nel suo paese c’è “il desiderio dell’uniformità al politicamente corretto”, e aggiungeva: “La ricetta per rimettere in piedi la Francia è semplice: rispettare la realtà”. Il problema non è tanto la busta paga, diceva, ma il senso per cui si lavora. Per spiegarlo faceva l’esempio dei tre portatori di pietre a cui viene chiesto che cosa stiano facendo: il primo risponde che sta trasportando una pietra, il secondo che sta facendo una scultura, il terzo che sta costruendo una cattedrale. “Allora, non conta quanto sia grande la cattedrale se le cose hanno un senso”. Astratto? Manco un po’: “Perché si lavora in Germania? Perché hanno rinunciato alla lotta di classe e accettato l’economia sociale di mercato. In Francia no”. Il senso degli uomini, della materia, l’idea che il cliente è il padrone dell’azienda. Questo, diceva, ha guidato il suo lavoro. Questo ha insegnato ai suoi nipoti: “La realtà, la verità. E che non si può mai fare a meno degli uomini e che non si può non amare ciò che si fa”.