Perché le banche inglesi temono le urne (laburisti a parte)
Apprendistati dei giovani senza lavoro finanziati con i soldi pagati da Deutsche Bank come sanzione per lo scandalo Libor. L’idea arriva dal primo ministro David Cameron in corsa per il rinnovo del mandato alle imminenti elezioni politiche del prossimo 7 maggio. Cameron, ha scritto qualche giorno fa il Financial Times, “sta tentando di allineare il suo partito con coloro che lavorano duro e si danno da fare nella vita provando a mettere un po’ di distanza tra i Conservatori e la City”. Una mossa che dà la cifra dell’aria che tira oltremanica.
Nelle elezioni inglesi più incerte da decenni, i politici di tutti gli schieramenti stanno facendo a gara per apparire più duri degli altri con l’establishment bancario. “Banche schiacciate nel mezzo di Labour e Tories in cerca di voti”, ha titolato ad aprile il Telegraph in un articolo in cui sottolineava che “per le banche e i loro investitori non ci sono potenzialmente buoni esiti, solo esiti meno cattivi”.
Che ci si giri a destra o a sinistra soffia aria ostile: il partito laburista è a favore di una maggiore competizione e di tasse più alte sul settore, compresa una nuova misura sui bonus; a destra i Tories hanno promesso di lanciare un referendum tra i cittadini per l’uscita dalla Ue, prospettiva che certo non facilita la vita ai colossi finanziari. E l’accerchiamento continua con i Verdi, per esempio, che vogliono introdurre la Robin Hood tax sulle transazioni di azioni, bond e derivati, e i Democratici liberali che, come i laburisti, vogliono aumentare ancora l’imposta sulle banche, the bank levy, la tassa introdotta nel 2011 (dai Conservatori però) e che da allora è già stata aumentata otto volte. Secondo gli analisti di Credit Suisse citati dalla stampa anglosassone, la proposta dei Labour per un prelievo extra di 800 milioni di sterline tramite la bank levy abbatterebbe i profitti di Barclays del 4,5%, di Standard Chartered del 3 per cento e di Royal Bank of Scotland del 2,3 per cento. Tant’è che il londinese Ifs, l’Institute for fiscal studies, ha avvertito in una recente analisi pre elettorale che “i politici devono smettere di trattare le banche come una mucca da soldi che può essere spremuta per ottenere gettito, perché gli aumenti di tasse senza fine causeranno danni di lungo termine per la City”. L’assalto, mette in guardia l’Ifs, rischia di creare “incertezza e rinforzare l’impressione dannosa che ci si debba aspettare ulteriori aumenti su base arbitraria”. “Comunque vada le banche inglesi ne usciranno comunque sconfitte”, ha sottolineato qualche tempo fa il Wall Street Journal.
Nel gioco di chi perde di più, un risultato più a favore dell’uno o dell’altro schieramento può comunque spostare il fardello. Se Cameron rimanesse in sella sarebbero soprattutto le banche internazionali che hanno sede a Londra a non avere molto di cui rallegrarsi: in un recente report il think tank Open Europe rileva che un’uscita dall’Unione Europea, a seguito del referendum già preannunciato dai Tories, comporterebbe comporterebbe un accesso più difficile al mercato comunitario che oggi pesa per ben il 41 per cento dei servizi finanziari londinesi. Tant’è che un colosso come Hsbc sta già approntando le contromosse. Non solo la banca pochi giorni fa ha annunciato il possibile trasferimento del proprio quartier generale a Hong Kong da Londra, ma secondo il Sunday Times starebbe anche pensando di far confluire le sue filiali bancarie inglesi in una società separata con cda e vertici indipendenti. Tuttavia, per alcuni il rischio Brexit, e l’incertezza connessa, è solo l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso di un contesto regolatorio e fiscale con cui Hsbc è ormai in aperto contrasto (la banca è stata una delle più colpite dalla bank levy). “Le banche lasceranno Londra?”, si è così chiesto qualche giorno fa il Wall Street Journal.
[**Video_box_2**]D’altra parte i programmi di Ed Miliband non andrebbero molto giù alla nazionale Lloyds che ha la maggiore quota di mercato sia nei conti correnti sia nei mutui residenziali. E che sarebbe costretta a cedere clienti ai rivali: i Labour hanno promesso un tetto alle quote di mercato delle banche di maggiori dimensioni con l’idea di creare “due banche sfidanti”. Oltre a Lloyds ne uscirebbe mal messa anche Royal Bank of Scotland: insieme pesano per circa il 40 per cento dei conti correnti britannici e gli analisti di Credit Suisse calcolano che la quota di mercato complessiva potrebbe essere ridotta, ipotizzando la volontà di creare uno scenario altamente competitivo, fino al 23 per cento. Con un bel contraccolpo sui profitti che per entrambe le banche potrebbero ridursi tra i 455 e i 560 milioni di sterline all’anno. Non solo. La minore redditività avrebbe chiaramente un impatto anche sul valore delle azioni rendendo più difficile per lo Stato vendere con un guadagno le quote che possiede in Rbs (80 per cento) e in Lloyd (23 per cento) a seguito dei salvataggi dovuti alla crisi del 2008. “Rompere” le grandi banche – sostiene però Miliband – aumenterebbe la competizione di un sistema che è stato “incredibilmente scarso nel servire l’economia reale”.
A invocare un vero e proprio “spezzatino” della Royal Bank of Scotland per sostenere l’economia è però direttamente la società civile. Il think tank inglese Nef (New economic foundation), organizzazione apolitica a favore della giustizia sociale, economica e ambientale, chiede che Rbs venga spaccata in un network di 130 banche locali con un mandato di pubblico servizio e supervisionate dai cittadini. In sostanza, si contesta che la banca debba tornare privata: oggi il saldo tra quanto è costato il salvataggio (45,5 miliardi di euro) e il valore della quota statale (33 miliardi) è di circa 12 miliardi di sterline. Al contrario, attraverso un confronto con le banche di risparmio tedesche e svizzere, il Nef ha stimato che se già nel 2008 Rbs fosse stata trasformata in un network di banche locali il pil inglese avrebbe avuto un beneficio immediato di 7,1 miliardi di sterline e altri 30 miliardi sarebbero arrivati nei successivi tre anni.