Perché il dibattito sulla Google tax ci ricorda che siamo il paese delle gabelle

Massimiliano Trovato
Nella discussione sul trattamento tributario delle multinazionali digitali, nemico pubblico numero uno, si accavallano due domande distinte: quali rimedi opporre, nell'immediato, alla presunta emorragia di gettito provocata dai "giganti del web"? E come ripensare, invece, i meccanismi della fiscalità internazionale?

Nella discussione sul trattamento tributario delle multinazionali digitali, nemico pubblico numero uno, si accavallano due domande distinte: quali rimedi opporre, nell'immediato, alla presunta emorragia di gettito provocata dai "giganti del web"? E come ripensare, invece, i meccanismi della fiscalità internazionale, per adeguarli alle nuove esigenze di un'economia sempre più immateriale e sempre più sfuggente? I due esercizi, agevolmente separabili sul piano tassonomico, si prestano a pericolose commistioni all'atto pratico, perché le soluzioni escogitate per l'emergenza rischiano d'indirizzare il dibattito su un sentiero senza ritorno. Per questa ragione, l'ipotesi di web tax avanzata da alcuni esponenti di Scelta Civica richiede un esame accurato.

 

Secondo quanto illustrato dal sottosegretario all'Economia Enrico Zanetti, la proposta prevede una ritenuta del 25 per cento sulle transazioni digitali, operata dagli intermediari finanziari sui pagamenti disposti a favore di soggetti residenti all'estero, ma dotati in Italia di una stabile organizzazione "virtuale", deducibile da un'attività continuativa di almeno sei mesi e da un giro d'affari non inferiore ai 5 milioni di euro. Gettito atteso: fino a 3 miliardi. Il progetto mira a superare le criticità della precedente proposta Boccia, che lo stesso Zanetti si era impegnato a disinnescare; ma vi riesce solo in parte. Allora, era solare il contrasto tra il congegno prescelto (l'obbligo di partita Iva italiana) e la libertà di stabilimento garantita dal diritto comunitario; oggi, difficoltà non meno rilevanti attengono all'entità del prelievo – che prende a riferimento i ricavi, senza alcun riguardo agli effettivi profitti – e al tentativo di ridefinire unilateralmente il concetto di stabile organizzazione accolto dalla normativa nazionale e dai trattati. Tuttavia, l'applicazione della misura non richiede la collaborazione dei destinatari: i profili di legittimità, dunque, sarebbero verosimilmente oggetto di contenzioso futuro, ma non ne paralizzerebbero l'immediata efficacia.

 

Le debolezze architetturali della proposta Zanetti rischiano di oscurarne i presupposti ideologici. Il fulcro dell'iniziativa è la nozione di stabile organizzazione virtuale, identificabile in una "presenza digitale significativa". Ma a che titolo potrebbe un paese come l'Italia, per il solo fatto che l'acquirente è un consumatore italiano, avanzare pretese su redditi generati, per esempio, dalla vendita di un'App creata nel Regno Unito e commercializzata attraverso piattaforme ideate negli Stati Uniti e gestite nel Lussemburgo? Alla base di tale orientamento, si rinviene una concezione feudale della sovranità tributaria, secondo la quale la mera opportunità di commerciare con un suddito deve costituire un input produttivo tassabile e secondo la quale il contributo di un'impresa allo sviluppo di un territorio si esaurisce nel gettito che essa genera. La perdurante popolarità delle multinazionali digitali, tanto demonizzate, dimostra che i consumatori non sono dello stesso limitato avviso.

 

[**Video_box_2**]E' evidente, poi, che un simile approccio finirebbe per sterilizzare le decisioni di stabilimento delle imprese e strozzare ogni forma di concorrenza fiscale, rimuovendo l'unico freno credibile alla potestà impositiva dei governi. Al di là delle specificità, la morale della web tax 2.0 non si distingue da quella dell'illustre antecedente: mentre nelle sedi internazionali il dibattito procede, l'Italia avanza per conto proprio e strappa, intestandosi la bandiera dell'equità, ma lasciando intendere motivazioni ben più prosaiche. Un atto di forza della politica a cui gli operatori economici – compresi quelli che oggi, per comprensibili calcoli concorrenziali, sostengono la necessità di un intervento in materia – non potrebbero che adeguarsi a malincuore. Con un caveat, però: le aziende decidono al margine e, se è difficile immaginare che lascino completamente sguarniti mercati di primo piano, non si possono escludere contromisure più periferiche. Talvolta, la corda tirata si spezza, come hanno sperimentato gli editori spagnoli che, mentre ancora celebravano l'agognato prelievo a carico di Google news, si sono visti sfilare il servizio da sotto il naso.

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