Austerity, sì grazie
Roma. Squadra che vince non si cambia, anzi si premia. David Cameron, premier conservatore inglese al potere dal 2010, dopo aver garantito che in questi anni il Regno Unito crescesse più di qualunque altro paese del G7, è stato riconfermato premier alle elezioni di due giorni fa. As simple as that, per una volta. E come per annichilire sondaggisti troppo temerari e osservatori sempre in cerca di stramberie, Cameron ha staccato i laburisti alla grande: 36,9 per cento contro 30,4, 331 seggi contro 232 a Westminster e maggioranza autonoma dei Tory (con buona pace di populisti vari e avversari del sistema elettorale più semplice e longevo che ci sia).
Che avremmo avuto difficoltà a prevedere un esito elettorale simile – specie in Italia, ma stavolta senza particolari diritti d’esclusiva – era sì prevedibile. Nell’estate 2011, col senno di poi, abbiamo avuto un piccolo assaggio del nostro strabismo indotto. Londra fu percorsa per alcune notti da giovani in vario modo incappucciati che bruciavano e rompevano la qualunque. Allora la crisi economica in tutta Europa era al suo culmine, e il governo inglese aveva appena annunciato di non credere a una politica di stimolo fiscale per puntellare la crescita. Ergo, per i nostri intellò quei palazzi e quei negozi incendiati divennero automaticamente le vittime collaterali di riots contro l’odiata austerity fiscale di Cameron. In pochi tra gli analisti, invece, puntarono sulla (meno affascinante) eruzione di delinquenza a carattere predatorio accovacciata nei sobborghi inglesi; quei pochi sono stati vendicati da qualche numero appena pubblicato, perché delle 3.914 persone allora incriminate – uscite su cauzione o rilasciate dopo i fatti – 1.593 sono tornate in pochi mesi a commettere reati. Altro che barricate dei novelli Beveridge.
[**Video_box_2**]D’altronde, se pure la distanza geografica tra Londra e Roma è relativa, è legittimo chiedersi come sarebbe accolto a queste latitudini un politico di primo piano che invitasse i disoccupati a prendersi una bicicletta e a cercare lavoro. Lo fece nel 2012 William Hague, ministro degli Esteri di Cameron. Quando gli chiesero di ritrattare una certa ruvidezza verso giovani e imprenditori che ricordava quella di Margaret Thatcher, lui rispose: “Volevo dire di peggio. Volevo dire: salite su un aereo, andate a studiare all’estero, andate a vendere merci all’estero. La bicicletta è troppo poco”. Accademici e aedi pikettiani della diseguaglianza crescente non hanno mai apprezzato questa tigna sviluppista. Dopo che il Fondo monetario internazionale ritrattò pubblicamente le sue critiche al rigore britannico – dovette farlo di fronte a un pil che l’anno scorso è salito del 2,6 per cento – la polemica da gauche ha cambiato verso: “Quella di Cameron non è vera austerity”. Polemica di lana caprina, non solo perché il deficit in cinque anni è stato dimezzato (dal 10 al 5 per cento), ma soprattutto perché gli inglesi sono quelli dell’austerity, non quelli del “den Gürtel enger schnallen”, cioè del tirare la cinghia dal sapore moralistico. Riduzione graduale della spesa e politica monetaria espansiva sono state funzionali a nuotare controcorrente su un altro fronte: Cameron ha tagliato le imposte su reddito e persone, imprese e profitti, mentre gli stati europei ne utilizzavano il gettito per tamponare la crisi fiscale. Strategia antica e poco glamour per stimolare l’imprenditorialità dell’inglese qualunque e abbattere la disoccupazione (oggi al 5,5 per cento). Nelle scorse settimane l’italiano Stefano Pessina e altri big della manifattura made in Uk, oltre alla solita City, hanno mostrato pubblicamente di apprezzare il modello Cameron e di temere un’inversione di rotta prospettata dai laburisti. Idem la maggioranza degli inglesi. A tanti commentatori dispiacendo.