Perché l'intesa tra Russia e Cina fa tremare (anche) l'Italia
Roma. La maggiore preoccupazione delle imprese italiane attive in Russia, dopo un anno di sanzioni occidentali imposte a Mosca per l’invasione militare dell’Ucraina, non è contare le perdite delle mancate esportazioni (1,6-2 miliardi di euro) ma riuscire a difendere le quote di mercato insidiate dai concorrenti europei e soprattutto asiatici. E’ un problema non solo per le aziende della meccanica, dell’alimentare e dell’arredamento, colpite dall’embargo russo in risposta alle sanzioni, ma anche per le banche italiane mentre Mosca suggella accordi industriali e finanziari con Pechino alla vigilia dell’anniversario dei settant’anni della Seconda guerra mondiale, il 9 maggio 1945.
La Russia sta tentando di incentivare le agenzie statali della Cina e le sue banche a elargire prestiti alle aziende private russe che, a differenza dei colossi pubblici puntellati dallo stato, soffrono la penuria di capitali. Mosca ambisce a farlo attraverso accordi finanziari favorevoli alle controparti cinesi. Va in questa direzione l’accordo siglato durante il vertice bilaterale di ieri tra il presidente russo Vladimir Putin e quello cinese Xi Jinping secondo il quale il fondo sovrano Russian direct investment fund (Rdif) e la China construction bank attiveranno un meccanismo di finanziamento che consentirà alle banche cinesi di finanziare le società russe che ne fanno richiesta lasciando in capo al fondo del Cremlino il rischio di subìre perdite. Un’offerta rivelatrice di una certa subalternità di Mosca (vedi editoriale in pagina).
Kirill Dmitriev, capo del Rdif, il cui ruolo è rendere attraente per gli investitori stranieri il paludoso mercato russo, ha detto al Financial Times che se il sistema dovesse avere successo – l’obiettivo è fornire finanziamenti per 20 miliardi di dollari in due o tre anni – questo potrebbe aiutare le banche cinesi a spingere fuori dal mercato i concorrenti europei di vecchia data che hanno ridotto i prestiti alle aziende a causa delle sanzioni. Dmitriev, che ha lavorato per Goldman Sachs a New York e McKinsey a Mosca prima di essere nominato ceo di Rdif nel 2011 – e ha creato una piattaforma per investire in progetti italo-russi con il Fondo strategico italiano della Cassa depositi e prestiti – ha aggiunto un avvertimento sibillino diretto agli istituti di credito italiani in terra putiniana.
“Le banche europee sono le più profittevoli in Russia, specialmente certe banche italiane, se sai cosa intendo dire”, ha detto Dmitriev a Kathrin Hill, corrispondente da Mosca del quotidiano della City, riferendosi a “uno dei maggiori istituti stranieri attivi nel paese”. “Noi stiamo per portare via quella quota di mercato”. Unicredit è la più grande banca straniera presente in Russia, con 107 filiali e 14 miliardi di euro di impieghi, e potrebbe essere destinataria del messaggio. I creditori occidentali europei e americani hanno assottigliato i prestiti alle grosse compagnie per via delle sanzioni da un anno a questa parte e contemporaneamente, Unicredit compresa, hanno cercato di recuperare clienti retail offrendo loro tassi più vantaggiosi rispetto alle banche di proprietà statale, anche con offerte aggressive. Il presidente della banca milanese, Giuseppe Vita, siciliano ben radicato nella comunità finanziaria tedesca, all’East Forum di Berlino il 22 aprile scorso ha invocato una ricomposizione dei rapporti economici euro-russi dicendo che “una zona europea di libero scambio con la Russia non è un’utopia, ma una visione realizzabile”. Un’iperbole, dato il contesto. Relazioni meno turbolente però aiuterebbero Unicredit anche in Europa centrale, dove ha importanti posizioni che vuole conservare ed espandere quando “molti dei nostri concorrenti ridurranno l’esposizione o usciranno”, ha detto Carlo Vivaldi, responsabile della divisione Centro est Europa. La principale incognita è la vendita degli asset in Ucraina, in particolare la cessione di Ukrsotsbank. “Il processo di vendita è in corso ma non è il momento giusto per trovare compratori né per vendere asset”, ha detto Vivaldi. L’incertezza provocata dal conflitto complica ogni trattativa. Unicredit, nel febbraio 2014, dopo la rivolta di piazza Maidan a Kiev, aveva arruolato Romano Prodi tra i consiglieri strategici nell’International Advisory Board (un organo di esperti diplomatici), visto che l’ex premier vanta buoni rapporti con il Cremlino (e anche con l’establishment cinese: è nell’advisory board della Minsheng investment, primaria banca privata di Cina). Intesa Sanpaolo, ereditaria della potenza Comit, giunta al seguito della Fiat ai tempi dell’Unione sovietica, con 79 filiali, è invece in cerca di acquisizioni con la sussidiaria Zao Bank e – scrive il Sole 24 Ore – mira alle branche di Raiffeisen Bank (tedesca) e Nordea Bank (svedese) in dismissione. Per acquisire posizioni si muove Antonio Fallico, il plenipotenziario di Intesa a Mosca da trent’anni.
[**Video_box_2**] Nel frattempo, come scritto sul Foglio, l’Italia sta emergendo come il laboratorio per intese russo-cinesi in occidente (Pirelli, Wind-3Italia), e fa un esercizio di equilibrismo tra una posizione europeista pro sanzioni – ma contraria al loro inasprimento – mantenendo però aperto il canale diplomatico con Putin. Il ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, sarà presente alle celebrazioni di questo fine settimana a Mosca ma non presenzierà alla parata militare d’apertura. Ciò mentre la Germania – assente ai festeggiamenti – invia da mesi, senza clamore, i suoi campioni del business in Russia per allargare gli spazi commerciali. Altra insidia per le società italiane che rischiano di essere scavalcate anche dai rivali della “famiglia” europea.