Lezioni dall'ultima puntata su Enel della soap opera della banda larga
Roma. Ieri il quotidiano Repubblica ha dato risalto in prima pagina alle indiscrezioni secondo le quali il governo affiderebbe alla società elettrica Enel la diffusione capillare della rete a banda larga in contrasto con gli operatori privati, in particolare con Telecom Italia. Il titolo della compagnia telefonica ha perso in Borsa.
Le indiscrezioni prendono le mosse da un documento risalente ad aprile, di cui aveva già dato conto il Messaggero, nel quale Enel rispondeva in modo affermativo a una consultazione dell’Agenzia per le comunicazioni tra operatori delle utility, circa la fattibilità dell’uso dell’infrastruttura della rete elettrica per diffondere la rete in fibra ottica. Secondo Repubblica, l’esecutivo vorrebbe fare di Enel, controllata dal ministero dell’Economia, il pivot della ormai mitica digitalizzazione del paese.
Ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e il sottosegretario alle comunicazioni, Antonello Giacomelli, non hanno smentito categoricamente ma rispondendo alla facile accusa di “statalismo” hanno smorzato l’iniziativa dicendo che al governo tocca solo “fissare gli obiettivi”, ma che “i piani industriali li fanno gli operatori”.
Enel era uscita dal business della banda larga nel 2006 liberandosi di Infostrada. Enel dispone della rete a bassa e media tensione fatta di cavi aerei e di cavi interrati. Una rete per telecomunicazioni è solo astrattamente simile a quella telefonica e una conversione significativa delle linee incontrerebbe difficoltà tecniche e tempistiche lunghe. L’uso della rete elettrica per scopi multi settoriali non è nemmeno una novità in sé. Enel ha dato a Telecom accesso alla sua infrastruttura nel febbraio 2014; i cavi sospesi possono raggiungere le zone più periferiche. La possibilità di utilizzarla esiste dal 2008 ma gli operatori non ne hanno approfittato in modo sostanziale.
L’idea riemerge in questi giorni dopo che, la settimana scorsa, Telecom aveva sostanzialmente chiuso la porta alla possibilità di lavorare con Metroweb, operatore della banda larga della Cassa depositi e prestiti, presieduto da Franco Bassanini. Mercoledì Telecom aveva stretto un’alleanza inedita con Fastweb della svizzera Swisscom, per la sperimentazione congiunta di tecnologie capaci di potenziare la velocità di connessione, emancipandosi così dai piani di Metroweb. Le visioni sulle tecnologie da adottare sono divergenti: Telecom e Fastweb vogliono conservare il tratto della rete in rame che va dalle cabine nelle strade fino alle case (fiber to the cabinet) e potenziarne il segnale. Metroweb invece vorrebbe che la fibra fino a casa (fiber to the home), che ha diffuso a Milano e provincia, diventi lo standard unico nazionale. “Si tratta di fare una guerra a chi la rete già ce l’ha, l’uscita delle indiscrezioni sembra una sorta di ripicca per come è andata la trattativa su Metroweb. Il governo imputa a Telecom di non avere voluto essere nella partita e adesso dice di volerla spingere all’irrilevanza”, dice Massimiliano Trovato, analista dell’Istituto Bruno Leoni di Torino ed esperto di regolamentazione e politiche pubbliche.
L’ipotesi di “affidamento” (parola iperbolica diffusa e rilanciata dai siti web) del piano banda larga a Enel ha gravato sul titolo Telecom che ieri ha perso l’1,8 per cento in Borsa. Quando erano emerse indiscrezioni su una bozza di decreto che prevedeva la dismissione della rete in rame di Telecom entro il 2030 – potenziale catastrofe per i conti e per i dividendi dell’ex incumbent – il governo aveva smentito prima dell’apertura delle Borse di lunedì 2 marzo. Quel giorno a sostenere il titolo ci avevano pensato delle indiscrezioni, poi non confermate, sull’interesse da parte della francese Orange a stringere un’alleanza.
[**Video_box_2**]E mentre gli operatori di Borsa smaltiscono l’ultima puntata della soap opera della banda larga, emerge qualche lezione dal bizzarro episodio. A febbraio il governo aveva avocato a sé il ruolo di regista pubblico nello sviluppo del piano nazionale per la digitalizzazione del paese, carente di infrastrutture telematiche veloci ed efficienti (soprattutto in fase di upload dei dati, aspetto cruciale per le imprese). Ma le visioni diverse all’interno dell’esecutivo e i differenti gradi di interventismo dei consulenti governativi fanno apparire quanto mai sclerotica la linea di Palazzo Chigi. L’accavallarsi delle agende personali, messe in risalto dai giornali, rischia di fare passare in secondo piano l’obiettivo politico più rilevante, di cui la Commissione europea chiederà conto, ovvero raggiungere con internet veloce (100 Megabit per secondo) la metà della popolazione entro il 2020, secondo l’Agenda digitale europea. Si chiede di presentare dei piani a fronte a incentivi pubblici che dovevano essere erogati il 31 maggio – ma non sono arrivati – e il rischio di non vederli all’opera è che l’Italia non si schiodi facilmente dal 25esimo posto su 28 paesi nelle statistiche Ue. A pesare è il giudizio negativo sulla connettività per la “peggiore copertura delle reti di prossima generazione” e la loro “bassa” diffusione.