E' made in Italy la Uber degli architetti contro cui si schiera il Parlamento
Milano. La rete nella comunicazione ha permesso di mettere in contatto in maniera istantanea e pressoché gratuita persone da ogni angolo del mondo. E nei rapporti economici ha permesso di saltare intermediari e superare corpi intermedi abbattendo i costi di transazione. In una parola, disintermediazione. Uber, l’applicazione che sostituisce i taxi con un clic sullo smartphone, vale oggi circa 50 miliardi di dollari e, secondo il Wall Street Journal, punta a ottenere una linea di credito da 1 miliardo di dollari dalle banche per prepararsi allo sbarco in Borsa. E’ solo l’esempio più famoso di un’innovazione che intacca monopoli o semplici strutture e rapporti economici concepiti in un’altra epoca con altri mezzi. Come Airbnb che trasforma i proprietari di immobili in affittacamere iperflessibili, queste applicazioni ottimizzano lo sfruttamento di capitali che rimarrebbero sottoutilizzati. Ma taxi e alberghi sono solo un pezzo della storia.
La stessa logica si è estesa al capitale umano, al settore delle consulenze e delle professioni, da ultimo quello degli architetti. E stavolta la startup che smantella e ricompone il mercato non viene dalla Silicon Valley, ma è made in Italy ed è stata fondata da tre ventenni, Alessandro Rossi, Filippo e Federico Schiano di Pepe. Anzi, gli ideatori di Cocontest in California ci sono andati, come vincitori di “500 Startups”, un importante programma di accelerazione di startup. Cocontest è una piattaforma di crowdsourcing dedicata al mondo dell’architettura, in pratica mette in contatto persone che hanno bisogno di ristrutturare le proprie abitazioni con architetti di tutto il mondo. Il cliente che vuole mettere a posto una casa, una stanza o un ufficio carica sul sito la piantina, indica le proprie esigenze e lancia un contest, una gara, che vede coinvolti gli architetti iscritti. Chi offre l’idea che piace di più al cliente si aggiudica il progetto e alla piattaforma va una commissione. L’idea è semplice, ma l’obiettivo è molto ambizioso: far sviluppare un settore asfittico, che patisce il crollo del mercato immobiliare, portando innovazione e concorrenza. In Italia in pochi si rivolgono agli architetti per ristrutturare gli interni a causa di costi alti e i professionisti non se la passano bene: secondo il Rapporto 2013 sulla professione di Architetto, oltre il 40 per cento dei dipendenti guadagna meno di 1.000 euro al mese, il 15 per cento meno di 500 euro, a 10 anni dalla laurea il reddito medio è di 1.300 euro e in tanti pensano di andare a lavorare all’estero.
La startup dovrebbe far funzionare meglio il mercato e, oltre a incrementare il lavoro in Italia facendo incrociare meglio domanda e offerta, ha anche l’obiettivo di portare all’estero i circa 150 mila architetti italiani, avvicinandoli al mercato americano e asiatico per mettere a frutto le loro competenze in un mercato globale.
Sembra un’idea brillante, ma la politica ha già intravisto seri pericoli. Alla Camera otto parlamentari di Sel, Pd, Movimento 5 stelle e Fratelli d’Italia hanno trasversalmente sottoscritto un’interrogazione ai ministri dello Sviluppo economico e della Giustizia in cui chiedono un intervento per fermare questa startup illegale e offensiva per la professione. Per Serena Pellegrino di Sel, la prima firmataria, Cocontest non fa altro che “proletarizzare gli architetti” e renderli “schiavi del mercato, costretti a svendersi per guadagnare due soldi”. Liberismo selvaggio insomma.
[**Video_box_2**]Ai deputati ha risposto uno dei fondatori della startup, Alessandro Rossi: “Gli schiavisti sono loro – ha dichiarato al sito Startupitalia – Il 60 per cento dei laureati lavora gratis con tirocini che durano anni. Loro hanno ammazzato il mercato e noi siamo fieri di democratizzarlo”. Rossi dice “loro” perché i firmatari hanno qualcosa in comune, sono tutti architetti, da Pellegrino di Sel a Fabio Rampelli di FdI, da Emanuele Fiano del Pd a Claudia Mannino del M5s. La professione unisce ciò che l’ideologia e la politica dividono. Ma sempre nel nome del “bene comune” e della “tutela dei consumatori”, s’intende.