L'altro fronte dell'Ucraina
Nel primo trimestre di quest’anno il prodotto interno lordo ucraino ha perso 17,6 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il micidiale balzo all’indietro si motiva in ragione del fatto che nel gennaio-marzo del 2014 la guerra nel Donbass, nell’est del paese, non era ancora scoppiata. Quindi le risorse pubbliche non erano state ancora dirottate in larga parte sullo sforzo militare, né l’apparato infrastrutturale e produttivo dei territori occupati dai miliziani filorussi nell’est, tra i più avanzati del paese, era stato danneggiato.
Benché largamente attesa, la performance negativa del primo trimestre ha avuto la forza di ricordare che l’economia dell’ex Repubblica sovietica è in stato agonizzante e rappresenta la prima urgenza nazionale, ora che sul fronte del Donbass, dopo la tregua siglata a Minsk lo scorso febbraio, gli scontri sono diminuiti d’intensità.
Al di là dei dati del pil che sarebbe destinato secondo il Fondo monetario internazionale a ridursi del 5,5 per cento a fine anno, ci sono molti altri numeri che aiutano a fotografare l’emergenza. Il debito pubblico potrebbe lambire quota cento per cento del pil entro dicembre, mentre la disoccupazione ha già toccato la doppia cifra. Danno il polso della situazione anche gli andamenti di due settori che fungono quasi sempre, a ogni latitudine, da cartina al tornasole della salute di un’economia: le costruzioni e i trasporti. Il parziale del primo trimestre rivela che hanno ridotto rispettivamente del 36,7 per cento e del 24,2 per cento l’attività complessiva. I dati, diffusi dall’agenzia statistica dell’Ucraina, non tengono conto dei distretti sotto il controllo dei separatisti filorussi. Né ovviamente della Crimea, che a tutti gli effetti è passata a Mosca.
La curva della grivnia, la valuta locale, è un altro fedele indicatore dello sconquasso. Il 21 novembre del 2013, il giorno in cui sul Maidan di Kiev sono esplose le proteste contro l’ex presidente Viktor Yanukovich, la valuta veniva scambiata otto a uno con il dollaro. Ora il rapporto è all’incirca di 21 a uno. A meno che non si cambi informalmente (e non è difficile farlo).
Il deprezzamento della moneta ha portato inflazione (quest’anno potrebbe arrivare al 40 per cento) e l’inflazione ha avuto ricadute negative sui consumi. Si tira la cinghia. Ma questo non dipende dal solo aumento generalizzato dei prezzi. Incide anche il programma di tagli e riforme richiesto dal Fondo monetario internazionale (Fmi) che assieme all’Unione europea ha messo in campo un piano di prestiti da 40 miliardi di dollari. Somma, questa, che equivale quasi a un terzo dell’attività complessiva dell’economia ucraina nel 2014. Tra i cambiamenti suggeriti dal Fmi figura l’aumento del prezzo del gas sul mercato domestico, tenuto artificiosamente basso da tutti i governi succedutisi al potere dall’indipendenza del 1991. Scaldare le case a costi più che accessibili almeno produceva consenso.
A Kiev il disastro economico non balza facilmente agli occhi. La capitale ucraina è grande e il trambusto quotidiano di persone, nelle strade, alle fermate del metrò, nei caffè e nei ristoranti, nasconde le crepe. Al contrario, la provincia remota restituisce senza filtri la sensazione di grave affanno in cui versa il paese. Novovolynsk è una cittadina di quasi sessantamila abitanti, situata nella regione storica della Volinia e addossata al confine con la Polonia. Sorse negli anni 50, in funzione dello sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo. Nella Volinia e nella vicina Galizia si trova la seconda vena carbonifera del paese, dopo quella del Donbass.
La fine dell’economia pianificata e il conseguente passaggio al libero mercato hanno determinato, nel corso degli anni, la chiusura di sette delle undici miniere presenti a Novovolynsk, trasformatasi da città ideale del socialismo a luogo avaro di prospettive. Le lancette della storia sembrano essersi fermate, in molti se ne sono andati all’estero. Anche nella vicina Polonia. Ma chi cerca un lavoro stabile guarda a Varsavia, più che alle regioni appena oltre confine, le meno progredite del paese europeo. Diversi abitanti di Novovolynsk ci si recano quotidianamente, comunque sia, grazie a una speciale politica dei visti. Comprano merci di qualità (in Polonia costano di meno), sperando di rivenderle in patria. Qualcuno va a smerciare vodka e sigarette. Il flusso inverso è meno intenso. I polacchi, in Ucraina, non trovano molte cose interessanti da fare.
Nonostante tutto, a Novovolynsk l’economia locale è ancora legata al carbone. Il programma d’aiuti del Fmi prevede chiaramente la fine dei sussidi statali ai siti minerari non produttivi. La città rischia di subire il colpo di grazia. Anatoly, sindacalista dei minatori, promette battaglia. Dice che lui e i suoi compagni sono pronti a fare baccano, bloccare strade, lottare in qualsiasi modo. Alcuni di loro erano a Kiev, il 23 aprile scorso. In quella giornata i minatori della Volinia, della Galizia e delle aree del Donbass amministrate dal governo centrale hanno chiesto la testa del ministro dell’energia, Volodymyr Demchyshyn.
Igor è rimasto a Novovolynsk. Il suo posto – ci dice – è accanto alla moglie e ai sette figli. Crescerli non è facile, in un paese povero come l’Ucraina. La cura draconiana suggerita dalle organizzazioni internazionali, tra l’altro, ha colpito anche gli assegni famigliari. Igor è un membro della chiesa evangelica. In Ucraina, grande laboratorio di proselitismi dopo il crollo dell’Urss, questa confessione si è saldamente radicata, specialmente nelle regioni occidentali. A Novovolynsk è molto influente e assolve funzioni di welfare che lo stato, sia perché è più che mai a corto di risorse, sia perché ha una sua cronica leggerezza, non esercita. Gli evangelici gestiscono ricoveri per anziani, strutture per bambini con famiglie disagiate, centri finalizzati alla cura delle tossicodipendenze e dell’alcolismo. Ne visitiamo uno. E’ una fattoria, a qualche chilometro dall’abitato. Gli ospiti spaccano legna, nutrono gli animali, coltivano i campi. Il lavoro e l’astinenza dalle droghe sono l’unica, durissima, terapia.
La debolezza dell’apparato amministrativo ucraino non si misura soltanto sul welfare. Contamina l’intero arco delle attività pubbliche. In Ucraina lo stato è evanescente e la corruzione dilagante. Sia quella di alto livello, che quella “di sopravvivenza”, come la definisce una fonte diplomatica incontrata a Kiev. L’altro giorno, in un lungo articolo, il New York Times si è soffermato proprio su questi aspetti, sottolineando che l’ardore riformista del presidente Petro Poroshenko e del primo ministro Arseni Yatseniuk ha lasciato finora a desiderare. Il quotidiano liberal, finora mai antipatizzante con il governo filo occidentale di Kiev, ha fatto pure capire che non è certo facile, con uno stato così malfunzionante e minato da pratiche non edificanti, varare quelle riforme radicali che secondo il Fondo monetario internazionale permetterebbero all’economia di darsi una nuova veste, uscire dalla crisi e consolidarsi negli anni a venire. L’ex ambasciatore americano a Mosca, Michael McFaul, che il New York Times ha interpellato, ha condensato il concetto in poche parole: “Non hanno il tipo di stato per fare le cose che gli viene chiesto di fare”, ha affermato riferendosi all’operato di Poroshenko e Yatseniuk.
Se il motore non funziona, la macchina non può andare troppo lontano. Molti analisti ritengono che i 40 miliardi stanziati da Fondo monetario internazionale e Unione europea sono insufficienti. Ne serviranno molti di più. Il costo dell’impegno politico-finanziario dell’occidente è destinato a crescere. Intanto, a giugno, l’istituto diretto da Christine Lagarde farà il punto sull’effetto dei prestiti. Ma ha già posto come condizione che entro quella data venga ristrutturata una quota di debito da circa 20 miliardi di dollari, composta dai titoli che matureranno nel periodo 2015-2018. Dovesse saltare questa operazione, non ci sarebbe copertura di bilancio e i rubinetti potrebbero restare chiusi.
Da settimane è in corso una partita spigolosa tra il governo ucraino e i creditori. Il primo vorrebbe che una parte del debito sia tagliata. I secondi si oppongono con nettezza. Negli ultimi giorni la discussione si è inasprita. Kiev ha accusato i creditori, riunitisi in associazione su impulso di Franklin Templeton, società americana di gestione fondi, di agire in cattiva fede. Questo perché alcuni di loro rifiutano di rivelare la propria identità. In soccorso di Kiev è intervenuto Larry Summers, docente di Harvard, già segretario al Tesoro ai tempi della presidenza di Bill Clinton. Sul Financial Times ha scritto che salvare l’Ucraina ha una rilevanza morale, economica e geopolitica, aggiungendo che i creditori negoziano a viso coperto perché imbarazzati dalle loro stesse posizioni, definite poco costruttive.
[**Video_box_2**]Nel frattempo anche la Russia, che detiene una quota di debito ucraino pari a tre miliardi, in scadenza a dicembre, sta assumendo posture muscolari sulla faccenda. Mosca, anche su questo fronte, come sul discorso del Donbass, si trova in una situazione tattica molto vantaggiosa. E’ infatti, allo stesso tempo, parte della soluzione e del problema. Probabilmente è quello che Putin voleva dall’inizio. Lo scenario che permette al Cremlino di tenere l’Ucraina sotto scacco. Mosca intanto ha fatto sapere di non ritenere necessario l’ampliamento del “formato Normandia” dei negoziati sulla crisi ucraina (Mosca, Kiev, Parigi e Berlino) inserendo anche gli Stati Uniti, ma con Washington ha deciso di lanciare un “dialogo bilaterale” sulla questione. Lo ha reso noto il viceministro degli Esteri russo, Serghei Ryabkov, riferendo i risultati del suo colloquio avvenuto lunedì con l’assistente del segretario di stato americano per l’Europa, Victoria Nuland. Apertura sì, ma senza entusiasmi. Ieri infatti Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino, ha detto che se l’Ucraina schiererà elementi del sistema di difesa missilistico statunitense sul suo territorio, la Russia sarà costretta a rispondere per garantire la propria sicurezza.
In attesa di capire la piega reale che prenderanno gli eventi, gli esperti si avventurano da tempo nel tratteggiare soluzioni e schemi che aiutino l’Ucraina a evitare il tracollo finanziario. Abbastanza in voga è la tesi secondo cui andrebbe emulata la “terapia d’urto” varata in Polonia dopo il 1989. Ma il Vienna Institute for International Economic Studies (Wiiw), che alla crisi nell’ex Repubblica sovietica ha dedicato di recente uno studio intitolato “How to Stabilise the Economy of Ukraine”, ritiene che il parallelo sia fuorviante. Se non altro perché Kiev è già da tempo un’economia di mercato, mentre le riforme radicali varate a Varsavia dopo il 1989 servirono a distruggere in tempi rapidi e con costi sociali enormi il sistema della pianificazione centralizzata. Gli esperti del Wiiw scrivono inoltre che in Ucraina, dal 1991, le terapie d’urto non sono mancate. Periodicamente sono entrate in vigore misure dal forte impatto, spesso suggerite proprio dal Fondo monetario internazionale. Il problema è che sono rimaste inattuate. E’ qui che l’esperienza polacca, posto che rappresenti un modello, risulta incompatibile con l’Ucraina. Questo perché, si legge nella ricerca del Wiiw, a Varsavia fu lo stato a governare la transizione e arginare gli appetiti della classe imprenditoriale. A Kiev, invece, il pallino è sempre stato in mano ai grandi potentati oligarchici. La genesi della loro immensa ricchezza sta nella gestione poco trasparente dei processi di privatizzazione.
Nelle scorse settimane Poroshenko, che è a sua volta un tycoon (il pezzo forte del suo patrimonio è l’azienda dolciaria Roshen), ha lanciato una crociata per la de-oligarchizzazione del paese. Sulla carta risponde alle istanze sollevate dal popolo del Maidan e all’esigenza, evidenziata dal Fmi, di intaccare monopoli e rendite di ogni tipo, quale che sia il loro allineamento politico. Nel concreto non sarà facile portare avanti questa strategia. Gli oligarchi reagiranno sicuramente ai propositi di revoca di alcuni grossi processi di privatizzazione, annunciati dalle autorità.
Uno riguarda Dniproenergo, colosso elettrico controllato da Rinat Akhmetov, l’uomo più ricco del paese. Il suo nome, a proposito o meno, viene evocato in ogni vicenda di alto profilo. A Novovolynsk si è arrivati a pensare che la potenziale dismissione delle miniere sia parte di un piano ordito segretamente che prevede il successivo riacquisto, a prezzi popolari, da parte del gruppo di Akhmetov. E forse questo indica che in pochi, al momento, credono alla battaglia anti oligarchica proclamata a Kiev.