Confindustria rischia di farsi rottamare dal tempo, non da Renzi
Roma. Mentre ieri mattina il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, scattava selfie con gli operai allo stabilimento Fiat-Chrysler Automobiles di Melfi alla presenza dell’ad Sergio Marchionne, Giorgio Squinzi pronunciava il suo ultimo discorso da presidente in carica di Confindustria dall’Expo di Milano; non nell’aulica Sala Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica di Roma come da tradizione plueriennale. Rottamazione estetica. La rupture sostanziale, al di là dell’iniziativa renziana che ha fatto molto discutere, arriva da lontano ed è a opera esclusiva di Marchionne che nel 2012 uscì dall’associazione nazionale degli industriali, e di recente anche da quella torinese, per applicare contratti ad hoc flessibili secondo gli alti e bassi del mercato nel settore Auto, tornato in spolvero. Tuttavia l’associazione degli industriali è ancora in rincorsa rispetto al modello marchionnesco, per quanto sia riconosciuto come virtuoso (a Melfi sono stati assunti oltre 1.500 nuovi addetti, sono 8 mila in tutto).
La visibilità assicurata dalla Fca a Melfi, Pomigliano, Mirafiori, Termoli ha fatto uscire i contratti aziendali dalla clandestinità: ha reso chiara la logica per cui chiunque investe in Italia vuole applicare il suo contratto. Lamborghini, gruppo Volkswagen, questa settimana ha preferito Sant’Agata Bolognese a Bratislava (Slovacchia) per produrre il Suv Urus su queste premesse. Secondo l’osservatorio Cisl sulla contrattazione di secondo livello nei primi quattro anni di crisi sono stati chiusi 3.500 accordi, solo di natura difensiva, ma molte aziende preferivano non dare enfasi mediatica all’innovazione per non intaccare i dogmi incrostati del sindacato degli imprenditori. In Lombardia e in Veneto sono stati tanti gli accordi in deroga al contrattone nazionale nel settore metalmeccanico. TenarisDalmine (tubificio di Bergamo del gruppo Techint), la Brembana&Rolle (macchinari, di Padova), la Avio (aerospazio, di Torino), sono alcuni casi rilevanti.
Se ci fosse un contratto unico minimal a livello nazionale che lascia la regolazione degli orari e degli stipendi all’accordo tra azienda e dipendenti, la confederazione degli industriali perderebbe la sua ragione d’essere. Squinzi non ha dunque rinnegato l’utilità del contratto collettivo in vista dei rinnovi dei prossimi mesi ma non ha negato, alla luce del modello sdoganato da Marchionne e rivelatosi vincente, che bisogna dare un più ampio spazio alla contrattazione aziendale in quanto capace di intercettare meglio la necessità di legare i salari all’aumento della produttività. “Questo tipo di contrattazione è utile alle imprese e alle persone che vi lavorano e i contratti collettivi devono incoraggiare ad andare in questa direzione”, ha detto alla sua ultima assemblea dopo oltre tre anni di presidenza. Marchionne ha risposto che “al di là dell’amicizia e la stima per Giorgio Squinzi come industriale (è patron della Mapei, ndr) mi devono offrire qualcosa di più per farmi ragionare”. “Siamo fuori da oltre un anno [da Confindustria] e non mi manca”.
[**Video_box_2**]La rappresentanza degli interessi non è stata cancellata dalla storia, ma oggi contano molto più le rappresentanze locali e con una contrattazione decentrata per filiera o per distretti – sul modello francese – assumerebbero ancora più rilevanza l’Assolombarda o la Federmeccanica, due potenti strutture, oppure le sigle dei piccoli imprenditori che sono passati attraverso il cerchio di fuoco della crisi e hanno assunto un’attitudine combattiva; quelli che non sono morti sono tutti sul crinale di un cambiamento radicale. In questa dinamica di pressione e moral suasion sui veritici della Confindustria per la modernizzazione delle strategie dell’associazione a un anno dal cambio alla presidenza – Squinzi, che gode di una considerazione personale molto ampia, conclude il suo mandato nel 2016 – si inseriscono anche le associazioni degli imprenditori del nord-est – zona dove i contratti aziendali sono usati e graditi. Loro hanno fatto valere il proprio peso durante la nomina dei venti membri elettivi del Consiglio generale il 7 maggio scorso facendo saltare la manovra di Assolombarda (milanese) e della Unindustria (laziale): ambivano a fare en plein e quindi avere un certo potere nell’influenzare l’elezione del presidente. Su 18 membri proposti, però, hanno ottenuti solo 9 eletti. Le associazioni di Vicenza, Treviso, il resto del Veneto, Friuli, Liguria, Marche e Umbria si sono coalizzate facendo blocco col risultato di avere guadagnato capacità di trattativa, presso quelle che erano considerate le oligarchie confindustriali, da spendere per influenzare le linee d’azione.
tra debito e crescita