Perché flat tax e reddito di cittadinanza possono andare a braccetto
Dunque, proviamo a fare un po’ d’ordine. Su un fronte c’è chi pensa che la flat tax “aiuti i ricchi” e che, al di là delle confusioni terminologiche, di “una misura universale di contrasto alla povertà” (spacciata impropriamente per “reddito di cittadinanza”) si possa e debba parlare. Nessuna meraviglia: sono posizioni – data la provenienza – tutto sommato comprensibili. Gli elettori di centrosinistra non diversamente dagli elettori “grillini” pensano (sbagliando) che l’unica possibile progressività sia quella che si esprime in aliquote crescenti dell’imposta personale e ripongono (beati loro!) una incondizionata fiducia nelle capacità del settore pubblico di disegnare misure articolate, selettive e condizionate di contrasto alla povertà. Evidentemente, i tanti problemi emersi a seguito della sperimentazione del “reddito minimo di inserimento” non hanno insegnato nulla. Evidentemente, nessuno più ricorda, ormai, che proprio la sperimentazione del reddito minimo di inserimento aveva segnalato in larga parte del paese l’assenza di “un retroterra amministrativo e professionale preparato ad affrontare la problematica della povertà e della esclusione sociale in modo non episodico o emergenziale, quando non clientelare”. E se negli ultimi anni la situazione è cambiata, è cambiata in peggio.
Sull’altro fronte regna invece una discreta confusione. Gli elettori del centrodestra la flat tax la stanno aspettando da vent’anni o poco più (e anche i “true believers” ormai cominciano a dubitare…) ma sul reddito di cittadinanza le opinioni sono, per usare un eufemismo, variegate. Parte della base del centrodestra lo considera “un’elemosina di stato”. Un’altra parte lo assimila, con scarsa precisione, al “sostegno ai redditi più bassi e senza lavoro”. Un’altra parte ancora parla, senza mezzi termini, di “assistenzialismo”. Qualcuno non lo vuole affatto. Qualcun altro lo vorrebbe su base regionale. Nessuno che capisca che le due cose – flat tax e reddito di cittadinanza – a determinate condizioni sono fatte invece per stare insieme e per completarsi.
E le due cose stanno insieme perché solo insieme contribuiscono a ridefinire la struttura (e la natura) tanto del nostro sistema fiscale quanto del sistema di trasferimenti. Nel primo caso combinando il precetto costituzionale della progressività (estesa all’intero sistema di imposte e trasferimenti) con la eliminazione delle conseguenze negative di un’imposta progressiva per scaglioni. Nel secondo sostituendo molti degli attuali istituti assistenziali e disegnando uno stato sociale capace di coniugare l’universalismo con l’equità e la semplicità e trasparenza del sistema di imposizione personale. In questo contesto, si noti che il reddito di cittadinanza (o, meglio, il “minimo vitale”) non è un sussidio, ma solo la modalità per ristabilire una parità di condizioni fra cittadini. Parità di condizioni che viene oggi violata da un sistema di detrazioni riservato ai soli cittadini capienti.
[**Video_box_2**]E’ un’ipotesi praticabile? Sì, se si accetta l’idea che – per non distruggere definitivamente un bilancio pubblico che al primo urto (vedasi la sentenza della Corte costituzionale sulla deindicizzazione delle pensioni) mostra tutta la sua fragilità – l’aliquota unica dovrà, con ogni probabilità, essere superiore a quelle (comprese fra il 15 e il 20 per cento) indicate nelle proposte di flat tax attualmente circolanti. E, nel contempo, se si parte dal principio che l’introduzione di un “minimo vitale” (e cioè di un trasferimento verso gli incapienti) non può non essere associato alla eliminazione di molti attuali istituti assistenziali (dagli assegni famigliari agli assegni sociali, dalle integrazioni al minimo alle pensioni di guerra, dalla cassa integrazione straordinaria all’indennità di disoccupazione). E’ un’ipotesi diseducativa o pericolosa? Non necessariamente, perché, per un verso, non esclude del tutto criteri di condizionalità ex post e pressoché automatici in grado di dissuadere comportamenti opportunistici e, per altro verso, può prevedere una transizione adeguata. E’ un’ipotesi attuale? Sì, perché chiarisce, senza equivoci, che diversamente da come si è fatto negli ultimi vent’anni (con risultati pari a zero) la vera riforma della Pubblica amministrazione si fa solo attraverso il processo di revisione strategica (e non funzionale) della spesa: domandandosi che cosa lo stato debba produrre e come e non limitandosi a chiedere che faccia un po’ meglio quello che già fa. E’ un’ipotesi ambiziosa? Sì, e molto. Perché non si limita a redistribuire risorse ma esprime una diversa visione del mondo. Perché si propone di cambiare alla radice il rapporto fra stato e cittadino: abbattendo la rendita da intermediazione del primo (riducendo i costi amministrativi e di transazione) e restituendo libertà di scelta al secondo.
Così come accade spesso ai bambini, le forze politiche di centrodestra guardano con gli occhi sbarrati e interroganti la flat tax e il reddito di cittadinanza senza rendersi conto che lo scopo del gioco non sta nello sbattere l’una cosa contro l’altra o nel giocare separatamente con l’una o con l’altra ma nel combinare l’una e l’altra cosa per ottenerne una terza ben più interessante e divertente. C’è qualcuno in grado di spiegarglielo? E c’è qualcuno, dall’altro lato, in grado di ascoltare?
Nicola Rossi è professore di Economia Politica all'Università degli studi di Roma “Tor Vergata”
tra debito e crescita