Contrattazione aziendale e non solo. I piani di Renzi post Jobs Act
Roma. Nella prima metà della prossima settimana, in Consiglio dei ministri, il governo presenterà gli ultimi decreti per dare attuazione completa alla legge delega sul Jobs Act approvata lo scorso dicembre. Dopo il contratto a tutele crescenti, già operativo da inizio aprile, “avremo le politiche attive per il lavoro, gli ammortizzatori sociali, l’agenzia unica per l’ispezione e tutti i processi di semplificazione previsti”, ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Finisce così il round renziano di riforme radicali del mercato del lavoro italiano? Non è detto. Un’importante spia per interpretare le prossime mosse del governo, e soprattutto lo stato di salute dei rapporti tra esecutivo e parti sociali, si chiama salario minimo. Poletti in marzo aveva detto che, essendo il salario minimo previsto dalla delega, sarebbe stato approvato anch’esso entro il 15 giugno.
Negli scorsi giorni, però, si sono intensificate le pressioni di tutte le parti sociali, Confindustria inclusa, per fermare il governo sul punto. Motivazione ufficiale: imprenditori associati e rappresentanti dei lavoratori devono poter continuare a decidere in autonomia i compensi orari, attraverso la contrattazione nazionale. Motivazione ufficiosa: i sindacati confederali si vedrebbero di fatto scavalcati nella tutela dei lavoratori oggi meno protetti; inoltre in presenza di contratti nazionali stipulati tra triplice sindacale e Confindustria ma giudicati troppo rigidi e onerosi dai singoli imprenditori, la presenza di un salario minimo può incentivare in maniera robusta la fuoriuscita di associati proprio da Viale dell’Astronomia. In stile Marchionne, per intenderci. A Palazzo Chigi i consiglieri di Renzi sono consapevoli che un adeguamento “all’europea” sul salario minimo, ben vendibile all’opinione pubblica, rimane inviso alle parti sociali. Il salario minimo sarà dunque in Consiglio dei ministri la prossima settimana? “Stiamo decidendo”, dicono fonti governative al Foglio. Le stesse fonti lasciano intendere che non ci sarebbe nulla di male a “scorporare” il salario minimo dalla delega sul Jobs Act, agganciandolo in seguito a misure più omogenee, tutte in materia di contrattazione: legge sulla rappresentanza, incentivazione della contrattazione aziendale e, appunto, compenso orario minimo.
La prossima settimana, se il salario minimo non sarà in Consiglio dei ministri, i più maliziosi potranno giudicare definitivamente vincente il pressing di Confindustria e sindacati confederali, custodi gelosi di uno dei loro ultimi poteri detenuti in monopolio. Nel governo, invece, sono certi di poter utilizzare proprio il (minacciato) intervento sul salario minimo, magari più in là nel tempo, come un ennesimo pungolo riformatore (come accaduto per la riforma lampo delle Popolari che poi ha innestato un tentativo tardivo di autoriforma delle stesse e un’autoriforma vera e propria del credito cooperativo).
[**Video_box_2**]Se però l’esecutivo vuole puntare in maniera decisa sulla contrattazione aziendale, la stessa che secondo il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi consente di “frenare i licenziamenti”, il senatore ed ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi consiglia di non perdere altro tempo: “Se il premier vuole davvero assestare una spallata salutare al sistema attuale, dovrebbe tenere fede a due impegni cui il governo ha fatto riferimento in varie sedi. L’approvazione del salario minimo. E poi la riattivazione di regole e fondi adeguati per la detassazione del salario di prossimità. Senza eccedere nella regolamentazione e nell’unionizzazione forzata delle aziende attraverso una legge invasiva sulla rappresentanza. Nei mesi che ci separano dalla prossima legge di stabilità, dunque, si capirà se Renzi, sulla contrattazione aziendale, fa sul serio”.