Il sultanato di Erdogan in Turchia scricchiola pure sull'economia
Roma. Le elezioni turche sono state prima di tutto un referendum sul progetto accentratore promosso da Recep Tayyip Erdogan. Difficile dubitarne. Lo stesso capo dello stato, in questa campagna, come nelle due tornate dell’anno scorso, le amministrative e le presidenziali, ha volutamente contribuito a polarizzare: con lui o contro di lui. Ciò comunque non significa che nel voto che ha portato al rinnovo del Parlamento non ci siano state variabili secondarie capaci di spostare qualche preferenza. E’ il caso dell’economia. Se si prende in considerazione il lungo periodo c’è poco da dire: la stagione segnata dal dominio politico di Erdogan e del suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), iniziata nel 2002, è stata eccezionale. Il prodotto interno lordo nazionale è passato da 232 a oltre 800 miliardi di dollari; quello pro capite da 3.500 a circa undicimila. Il quadro delle finanze pubbliche si è stabilizzato e c’è stata una copiosa pioggia di capitali dall’estero.
Ultimamente, tuttavia, sono emersi segnali di affaticamento. Le ultime annate ruggenti sono state quelle del 2010 e del 2011, quando la crescita si è attestata al 9,2 e all’8,8 per cento. Dal 2012 l’espansione media del pil è stata del 3 per cento. Il rallentamento, sul quale ha senz’altro inciso la crisi nei paesi dell’Eurozona, decisivi per la Turchia sia in termini di esportazioni sia di investimenti, è stato accompagnato dallo stallo dei processi riformatori, da una crescente inflazione (la lira è crollata) e dall’aumento del tasso di disoccupazione, attualmente all’11 per cento, che prosegue ininterrottamente da due anni.
[**Video_box_2**]Non è da escludere che molti turchi abbiano voltato le spalle all’Akp anche in ragione di questa frenata, a cui lo stesso Erdogan ha contribuito. Gli esperti ritengono che la retorica di stampo anti occidentale a cui è ricorso in questa, come nelle precedenti tornate elettorali, nel tentativo di mobilitare e motivare la base dell’Akp, abbia infastidito gli investitori. Tra chi ha manifestato riserve sull’operato economico del governo figura anche la classe imprenditoriale, a lungo una delle chiavi del consenso di Erdogan. Ora però le aziende rimproverano all’Akp l’incapacità di ritrovare l’ardore riformista e cercare soluzioni idonee a rilanciare l’afflusso di investimenti. Che tra l’altro aiuterebbero la Turchia ad affrontare meglio la questione pruriginosa del deficit delle partite correnti, che è pari al 6 per cento del pil. Si consuma più di quanto si produce, in altre parole. La classica febbre da paese emergente. Il problema è che questo buco viene coperto prevalentemente con investimenti da portafoglio, per loro natura volatili. Un altro indizio che porta a credere che l’economia abbia avuto in fin dei conti una sua influenza nell’esito del voto sta nel fatto che tutti i partiti rappresentati nel nuovo Parlamento hanno dato molto spazio, nei programmi, ai temi delle riforme e della ripresa. Hanno inoltre candidato economisti di spessore. E’ il caso di Selin Sayek Böke, fino al 2011 a capo del dipartimento economico della Bilkent University di Ankara. E’ stata eletta nelle file dei repubblicani del Chp. Avrà come compagno di partito Zekeriya Temizel, ex presidente dell’Autorità di controllo sul sistema bancario. Anche l’ex banchiere centrale Durmus Yilmaz figura tra i nuovi membri dell’Assemblea, ma è stato messo in pista dai nazionalisti dell’Mhp. Mentre Sezai Temelli, dell’Università di Istanbul, indosserà la casacca dell’Hdp, partito filo-curdo che è riuscito a conquistare l’elettorato progressista ampliando l’offerta politica. E’ stato il suo risultato, sorprendente ma neanche troppo visti gli ultimi sondaggi, a impedire che l’Akp facesse indigestione di voti e a congelare così il progetto di “presidenza imperiale”. Una buona notizia, secondo due gruppi industriali fra i più influenti del paese, Koc e Sabanci. Erdogan non convince più il gotha dell’economia.