Che cosa c'è dietro lo scontro tra Renzi e fondazioni sulla Cassa depositi e prestiti
Roma. Mettete un Matteo Renzi con un disperato bisogno di crescita e riforme ma senza soldi né per l’una né per le altre. E mettete un forziere pubblico con dentro qualcosa come 250 miliardi di euro amministrati con parsimoniosa oculatezza. Ecco, sintetizzata, la spiegazione-madre del blitz sulla Cassa depositi e prestiti, santuario di stato, benché giuridicamente privato, per anni cullato dall’idea di essere un’area sacra e intoccabile, tipo la Banca d’Italia. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha dato il via chiedendo le dimissioni all’amministratore delegato Giovanni Gorno Tempini, in un clima descritto come non molto cordiale. Blitz dunque che va avanti, e quindi epocale: rottama una diversità finora perpetuata, spacca equilibri di potere (tra Palazzo Chigi e mondo bancario), sottopone alla dura lex del toto nomine un mondo abituato alle buone maniere in grisaglia. Come altre spericolatezze renziane anche questa presenta rischi: le Fondazioni bancarie, azioniste di minoranza, minacciano sfracelli, anche se l’idea è che s’accomoderanno.
Sempre ieri il loro capo Giuseppe Guzzetti ha anche lui incontrato Padoan; seguirà l’appuntamento chiesto a Renzi, il tutto per discutere dell’avvicendamento del presidente Franco Bassanini, nomina di competenza delle Fondazioni, sulla quale incombe Claudio Costamagna, ex Goldman Sachs. E per capire se si vuol trasformare la Cassa in uno strumento della politica economica governativa: “L’importante è che non diventi una nuova Iri” ridimensiona comunque il numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni. Alcune fondazioni se ne andrebbero liquidando le quote: se lo facessero tutte, titolari del 18,4 per cento, la Cdp dovrebbe sborsare 3,7 miliardi su un patrimonio netto di 20, con ripercussioni giudicate sostenibili sul Tesoro. Però verrebbe meno la natura privatistica che consente di tenere la Cdp fuori dal perimetro pubblico, assieme alle controllate (Eni, Terna, Snam, Fincantieri, per dire), mentre i progetti interventisti diverrebbero sospettabili di aiuto di stato. Ma il governo pensa che l’intendenza seguirà, e più che di piani industriali si parla di nomi, del quadrilatero Renzi, Padoan, Bassanini, con Gorno ormai ex e un anno di contratto a 600 mila euro (sostenibile pure quello). Il vero imbarazzo riguarda Bassanini, al quale Renzi assicurava, durante una cena, che non l’avrebbe mai rottamato. Nel frattempo Bassanini ha offerto al new deal renziano molti consigli (esempio, su come ripagare i debiti della Pubblica amministrazione), ha pilotato una modifica dello Statuto per far sì che la Cdp possa finanziare soggetti “di interesse generale”, socchiudendo le porte a quel mutamento che ora molti temono. Renzi gli ha fatto balenare il Quirinale, poi la Corte costituzionale. Missioni impossibili. Così si sussurra di un altro red carpet, o di una fregatura.
[**Video_box_2**]Ma se è chiaro l’obiettivo di fondo di Renzi (difficile da addossare tutto al consulente del premier Andrea Guerra), che cioè non è più tempo per una Cassa statica, resta da vedere l’oggetto immediato del contendere. “In tutti i grandi passaggi di potere c’è una storia di telefoni”, dice un osservatore smagato alludendo al polo della banda ultralarga, fermo anche per lo scontro tra Bassanini e la Telecom. Operazione strategica per il governo, e soprattutto di sistema, da affidare a banchieri “sistemici” come Costamagna e Fabio Gallia: e però il primo è indigesto alle Fondazioni, mentre sul secondo, ad della Bnl-Bnp, si è scoperto che grava il rinvio a giudizio della procura di Trani nel processo sui derivati. Così incapperebbe nella “direttiva Saccomanni” del 2013 sulle incompatibilità nelle partecipate del Tesoro (Saccomanni o Severino, sempre quella è la storia). Un altro candidato, Gaetano Micciché, direttore generale di Intesa, si tira indietro: “Non c’è nulla”. Si andrà avanti per qualche giorno, ma pare proprio che il dentifricio non potrà tornare nel tubetto.