L'“ubriacatura tecnocratica” sarà finita, ma i politologi sono nostalgici
Londra. S’intitola “The China Model. Political Meritocracy and The Limits of Democracy” (Princeton University Press) il libro del sociologo e politologo Daniel A. Bell, uscito all’inizio del mese, che passa in rassegna i limiti di liberal-democrazie occidentali mettendole a confronto con i regimi orientali di Cina e Singapore. La tesi di Bell s’inserisce a pieno titolo nel dibattito sulle democrazie degli ultimi anni. Già nel 2013 Nathan Gardels e Nicolas Berggruen avevano evidenziato nel libro “Intelligent Governance for the 21st Century: a Middle Way between West and East” le difficoltà delle élite occidentali alla prova del populismo: difficoltà decisionali, instabilità governativa, spesa pubblica inarrestabile, sovraccarico dei parlamenti, discredito delle istituzioni, domanda insoddisfatta di partecipazione dei cittadini. Ieri il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha detto che “l’ubriacatura tecnocratica sta finalmente segnando il passo” e che è tornato, in Italia ed Europa, “il tempo della politica con la ‘p’ maiuscola”. Eppure i problemi sollevati da alcuni degli analisti citati sono quelli che hanno reso, come il caso greco insegna, sempre più difficili non solo l’implementazione delle politiche pubbliche nel lungo periodo, ma anche i rapporti intergovernativi a livello globale. Sul tema si è impegnato anche lo scienziato politico americano Francis Fukuyama, il quale nel suo ultimo libro “Political Order and Political Decay: From the Industrial Revolution to the Globalisation of Democracy”, sembra correggere l’ottimismo dei primi anni 90 coniando il termine “vetocrazia” per indicare quella serie di problemi derivanti dalla complessità dei livelli di governo, dalle scarse performance delle alte burocrazie, dalle difficoltà di arginare i poteri di veto degli interessi costituiti e di mantenere entro i vincoli di bilancio una spesa pubblica sottoposta sempre più a maggiori pressioni da parte dei vari cartelli elettorali. Da queste problematiche si origina il sorgere dei populismi ossia di un sentimento popolare di contestazione verso una politica non più in grado di fornire tutto e subito senza imporre sacrifici.
E’ l’ascesa delle “controdemocrazie”, per usare un’espressione di Pierre Rosanvallon, docente al Collége de France, ossia di spinte fortemente contrarie all’organizzazione politica, istituzionale e internazionale vigente che esplodono elettoralmente in movimenti di protesta. Così il ricatto elettorale neutralizza la capacità decisionale delle élite occidentali costrette a retrocedere, ad arroccarsi, a difendersi piuttosto che pagare il prezzo dell’impopolarità. La crisi dello stato si dimostra nella sua fragilità: aristocrazie politiche e burocratiche di scarsa qualità prigioniere della vetocrazia, diffusione di quel pensiero breve che rinfocola populismi vogliosi di immediatezza, ma incapaci sia d’indicare soluzioni reali sia di vincere le elezioni con un progetto di governo. Così l’occidente si volge a oriente alla ricerca di modelli di governance e sistemi politici in grado di coniugare democrazia liberale e meritocrazia politica, che sappiano indicare la strada per superare l’impasse dei veti incrociati sulle riforme. Il pensiero di Bell va all’efficiente amministrazione di Singapore, basata su un sistema scolastico altamente competitivo e a una selezione della dirigenza pubblica strettamente legata a competenze manageriali, misurazione delle performance, una certa osmosi tra le alte sfere della politica e della burocrazia. Un modello che, nelle ultime tre decadi, è stato esportato anche nella Cina post maoista applicandolo tanto alla selezione della classe politica quanto a quella dei funzionari dello stato. Seppur con forti contraddizioni e in contesti autoritari, questa forma di meritocrazia politica ha garantito ai due paesi tassi di crescita superiori a qualsiasi potenza occidentale. Il lavoro di Bell mostra dunque una doppia faccia: da un lato l’analisi della crisi delle liberal-democrazie, con l’emergere di debolezze che erano già state segnalate da numerosi pensatori del liberalismo classico come Alexis de Tocqueville, John Stuart Mill e da ultimo F. A. von Hayek, dall’altro l’opportunità per i paesi orientali di stabilizzare il proprio sistema politico senza rinunciare a una democratizzazione graduale.
[**Video_box_2**]Nella compenetrazione tra i due modelli istituzionali, quello occidentale e quello orientale, il professore scorge la possibilità di un disegno costituzionale volto a garantire partecipazione democratica, pluralismo, protezione dei diritti individuali e allo stesso tempo capace di produrre una classe dirigente di alta qualità. Il doppio binario di Bell sfocia in una doppia proposta: per i paesi orientali la necessità di valorizzare il momento democratico principalmente a livello locale, in modo da evitare possibili implosioni della stabilità politica a causa della negata partecipazione dei cittadini, mentre per le democrazie occidentali la proposta è quella di affiancare alle tradizionali strutture del costituzionalismo liberale gruppi di “long term thinking”, sostituendo per esempio le seconde camere legislative con una camera non direttamente elettiva i cui membri siano selezionati sulla base di determinate competenze. Più realistica la proposta di Bell riguardo la Pubblica amministrazione: ingresso nel corpo amministrativo solo per concorsi, trasparenza, formazione e valutazione continua, test per selezionare i funzionari più promettenti, carriera e retribuzione legate alle performance. Il libro si pone in un filone di opere che dall’inizio della crisi economica cerca di riflettere sulla formazione e la selezione delle élite nei contesti democratici, proponendo soluzioni che possano frenare populismi e scelte ostaggio di umori popolari e interessi costituiti. Una materia su cui i paesi europei, Italia in primis, dovrebbero interrogarsi a fondo e rispondere di conseguenza sul piano educativo, politico e istituzionale.