Aridatece er puzzone
Ancora niente accordo con Tsipras. Tra eurocrati e mercati, per Atene c'è chi rimpiange il grigio Samaras
Roma. Dicono che Jean-Claude Juncker, dalla scorsa estate presidente della Commissione europea, abbia la memoria di un elefante. Al punto che il ministro delle Finanze olandese, Jeroen Dijsselbloem, in queste ore in cerca di riconferma come presidente dell’Eurogruppo, teme ancora le conseguenze di una battuta sfuggitagli lo scorso anno a proposito dello stesso Juncker, definito in una trasmissione televisiva nel suo paese “un bevitore e fumatore invecchiato”. Memoria d’elefante, dicevamo, che questa settimana avrà soccorso Juncker al momento della sua telefonata (dai contenuti riservati) con Antonis Samaras: bei tempi – avrà pensato, non unico a Bruxelles – quelli in cui Atene era governata dal premier conservatore. Il leader di Nuova democrazia, al governo della Grecia dal 2012 fino al gennaio 2015, non sarà stato un interlocutore sempre disciplinatissimo agli occhi della Troika, ma almeno più prevedibile e pacato del successore Alexis Tsipras sì. Il che, in tempo di mercati globalizzati, già non è poco. Lo sanno bene gli analisti finanziari, poco appassionati alle dinamiche politico-diplomatiche dietro il mancato accordo tra Atene e i suoi creditori internazionali per l’ultima tranche di aiuti, ma attenti a far di conto. Ieri il Sole 24 Ore calcolava che dai massimi borsistici dell’anno, raggiunti grazie alla spinta del Quantitative easing annunciato da Mario Draghi il 9 gennaio, “le Borse dei 19 paesi dell’Eurozona hanno bruciato 600 miliardi”; “Piazza Affari, dai massimi del 15 aprile, è stata colpita dalle vendite, accusando un calo di periodo del 7 per cento, corrispondente a 43 miliardi”. Secondo una recente inchiesta del quotidiano greco Kathimerini sull’eclissi di Samaras, proprio il lussemburghese Juncker, allora capo dell’Eurogruppo, fu il più simpatetico con il leader di Atene. Che in quella fase chiedeva con insistenza “più tempo” per continuare con le riforme in cambio di aiuti. Ma che d’un tratto quel tempo se lo vide negare. Nel settembre 2014, il primo segnale: a un incontro con la leadership tedesca, la Merkel si presentò ma il suo ministro delle Finanze Schäuble no. La cancelliera disse a Samaras: “Ho già speso tanto capitale politico sulla Grecia. Senza il sostegno di Schäuble, non posso essere più flessibile”. Dopo due mesi, seguì una lettera della Troika con una lista di riforme troppo lunga per essere attuata in un mese.
Furono momenti critici, certo. Ma niente rispetto a ora. Oggi nessuno, per dire, si fa più alcun problema a nominare in pubblico il “default” greco: Christine Lagarde dice che “sarà default” se Atene non paga il Fondo monetario internazionale entro fine mese; il ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, più ottimista, dice che “al massimo si tratterà di un arretrato”, poi aggiunge che “perché arrivi al default ce ne vuole”. A misurare la distanza tra la fine dell’èra Samaras e i sei mesi dell’èra Tsipras ci ha pensato l’agenzia Bloomberg, con qualche semplice grafico. Quello della Borsa di Atene, per esempio, passata da 1.050 a 750 punti. Quello dei depositi privati nelle banche del paese, diminuiti di 30 miliardi di euro (da 165 a 135) dal momento in cui furono convocate le elezioni a oggi. Il nuovo governo ellenico gode solo di cattiva stampa? A giudicare dalle previsioni Ue sulla crescita del paese non si direbbe: a fine 2014, Bruxelles stimava una crescita dello 0,6 per cento in quell’anno e del 2,9 per cento nel 2015; in primavera tutto cambia, i dati per il 2014 di Samaras sono rivisti al rialzo (più 0,8), quelli della gestione Tsipras ritoccati al ribasso, un esiguo più 0,5 per cento per il 2015.
Ieri il ministro delle Finanze greco, l’economista-rockstar Varoufakis, ha presentato ai colleghi riuniti in Lussemburgo un’ennesima lista di riforme. Per ora non è bastato. Così per lunedì 22 giugno il presidente del Consiglio Ue ha convocato un summit d’emergenza “per discutere ai massimi livelli politici” il tutto. E in Europa c’è chi rimpiange quei ministri di Samaras che, senza batter ciglio e senza finire sulle riviste patinate di mezzo mondo, chiudevano orchestre sinfoniche e sospendevano trasmissioni della tv pubblica in nome dell’austerity. (Piccolo dettaglio: a molti elettori greci dispiacendo, nonostante il più che dignitoso 27 per cento dei voti conquistati da Samaras a fine gennaio).