La rivolta del vecchio mondo
Parigi. Nessuno sa con certezza se Ned Ludd fosse una persona reale o soltanto il prodotto di una leggenda. Ma sta di fatto che in suo nome, duecento anni fa, in Inghilterra, i framework knitters, ossia i lavoratori di calze e maglie al telaio, organizzarono la prima insurrezione violenta contro le macchine della storia dell’umanità, conosciuta appunto come la rivolta luddista. “Ned Ludd ci ordina di farlo!”, gridavano nel 1811 i framework knitters, mentre distruggevano i telai di Nottingham e delle altre città della contea di Sherwood. Oggi, se si dà uno sguardo a ciò che sta accadendo soprattutto in Francia e in Italia tra i tassisti e Uber, sembra di assistere a una nuova rivolta luddista, con i tassisti al posto degli operai tessili dell’Inghilterra durante la Rivoluzione industriale, e Uber nel ruolo dell’alieno, del macchinario distruttivo, del mostro freddo che ruba il lavoro. Tuttavia, come spiega al Foglio Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, l’analogia tra le due sedizioni è meno evidente di quanto possa sembrare. “Il luddismo era un fenomeno localizzato, che non ha mai attecchito a livello nazionale, e vi era la percezione che ci fosse una sostituzione tra macchine e lavoro umano. Nella vicenda di Uber non c’è sostituzione tra macchine e lavoro umano. C’è l’apertura della concorrenza a un numero più ampio di lavoratori”, dice Mingardi.
“Più che con il luddismo, l’analogia è con il sistema degli apprendistati in quell’epoca. Una delle grandi innovazioni che si hanno all’inizio del Diciannovesimo secolo è la progressiva apertura del sistema dell’apprendistato a un numero maggiore di apprendisti, quindi la creazione di più concorrenza per una serie di mansioni, operai specializzati sostanzialmente. Ed è quello che abbiamo con Uber. Il tassista non ce l’ha con l’app, e neppure con il telefono cellulare, tant’è che poi gli stessi tassisti, pur con un po’ di ritardo, sviluppano delle applicazioni per gli smartphone. Ciò che non piace al tassista, e questo è comprensibile, è che ci siano più persone che possano fargli concorrenza nella fornitura dello stesso servizio”. Il lato comprensibile della ribellione, e qui funziona ancora l’analogia con le vecchie corporazioni, sottolinea Mingardi, è che al tassista era stato promesso che questa apertura non sarebbe avvenuta. “Il tassista ha pagato fior di quattrini per una licenza di taxi sulla base di quest’idea: io compro questa cosa a tanto perché so che tu, governo locale, mi garantirai che nessuno verrà a farmi concorrenza e che saranno praticati solo determinati prezzi che decidi tu, ma sui quali io e la corporazione di cui faccio parte abbiamo un minimo d’influenza. Se il patto salta è normale che ci sia una rivolta”. Su questi ultimi due punti le posizioni del direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni e del filosofo Massimo Cacciari collimano. Non c’è tecnofobia, rifiuto dell’innovazione tecnologica, smania di spaccare simbolicamente o realmente lo smartphone, anche perché gli stessi tassisti ne fanno uso quotidiano e traggono beneficio da altre tecnologie. C’è una rivolta scatenata da un grande tradimento, da un patto tra tassisti e legislatore che è venuto meno: “I tassisti non vogliono avere concorrenza, punto. Non gliene importa niente dell’aspetto tecnico. Lavorano con gli stessi strumenti dei loro concorrenti. Si tratta di una protesta contro l’aumento di quelli che fanno i tassisti. I tassisti vogliono semplicemente essere di meno, perché così lavorano di più”, dice Cacciari al Foglio. “Queste forme di protesta sono in gran parte legittime, perché non è che si può liberalizzare dalla mattina alla sera senza tener conto dei diritti pregressi. Se il tassista paga duecento, trecentomila euro una licenza, non si può stabilire di punto in bianco che questo sacrificio è stato completamente vano. Bisogna pensare a delle forme di compensazione, ogni innovazione deve essere regolata, governata, non può avvenire così a caso come avviene da noi. Esiste una politica, e i primi grandi economisti classici lo sapevano benissimo, proprio per cercare di regolare, di governare, questi processi che in sé sarebbero semianarchici, perché la semplice logica dell’innovazione tecnico-economica non riesce a intervenire sugli effetti sociali, umani, psicologici della rivoluzione permanente del capitalismo. Il nostro cervello non è stato creato dalla tecnica, non si adatta automaticamente all’innovazione tecnica.
[**Video_box_2**]C’è bisogno di una politica, non per contraddire l’innovazione e il carattere rivoluzionario del capitalismo e del mercato, bensì per cercare di governarlo, di non renderlo traumatico per l’essere umano”. Sulla necessità di governare le innovazioni tecnologiche, Mingardi è di tutt’altro parere: “Le innovazioni arrivano precisamente o nel vuoto della politica o nella sua grande opposizione. La politica rappresenta interessi che sono già consolidati. Al detentore del potere viene chiesto che questi siano tutelati. In questo la storia di Uber è esemplare. Uber ha messo assieme intelligentemente delle innovazioni che ci sono già state. Ha unito l’innovazione distruttiva dello smartphone e l’integrazione del Gps al telefono cellulare, creando un’applicazione che da una parte è a disposizione delle persone che desiderano avere trasporto, e dall’altra, e questo è il dato estremamente rilevante, a tutta una serie di persone che sarebbero disponibili a fornire un passaggio a pagamento. A differenza dei tassisti, gli autisti di UberPop rappresentano però un gruppo disorganizzato e non si presentano quindi al decisore politico come un pacchetto di voti scambiabile. E’ come se non esistessero, insomma. Un’interpretazione alta del ruolo del politico dovrebbe portare a smarcarsi dalle questioni simboliche, dai pacchetti di voti già esistenti, trovando invece soluzioni ai problemi pratici, per esempio come bilanciare la perdita del valore della licenza provocata dall’arrivo di Uber. Ma al politico nel senso comune del termine queste cose non interessano, gli interessa il bacino elettorale”.