Basta mezze misure
"Basta con gli Stati Uniti d’Europa”, ha scritto mercoledì Franco Debenedetti. Piuttosto basta con le mezze misure. L’accordo di domenica non serve a niente. Da un minimo di una settimana a un massimo di un anno ci ritroveremo con l’ennesimo vertice fiume per gestire la questione greca. Al di là della politica, i numeri dietro l’accordo non tengono: in cambio di 82-86 miliardi di aiuti ad Atene sono richiesti aggiustamenti che si rifletteranno in riduzioni del pil di pari entità. I 50 miliardi di privatizzazioni, poi, sono pura fantascienza (non esistono beni di tale entità e anche ci fossero il caso italiano dimostra che ci vuole molto tempo). Come se non bastasse il Fondo monetario internazionale ha pubblicato martedì una revisione della già drammatica analisi sul debito greco, ora previsto al 200 per cento nei prossimi due anni, affermando che senza un ulteriore taglio nominale (difficile o addirittura impossibile nell’area euro) o reale attraverso estensioni delle scadenze e dei “periodi di grazia” senza pagamento di interessi (dal 2023 al 2053) non potrà partecipare al nuovo programma di salvataggio (aggiungendo ostacoli politici e legali all’accordo). E anche se tutti i pezzi dell’accordo andassero a posto e le misure non soffocassero l’economia greca, il rischio persistente di Grexit continuerà ad allontanare gli investimenti.
In sostanza, comunque vada, 17 ore di negoziato notturno avranno come risultato un debito greco ancora più elevato, una decrescita (infelice) del pil e un quadro politico ancora più diviso. Ma il problema non è solo la Grecia, perché dalle 17 ore di negoziati l’idea stessa di Europa esce seriamente intaccata. Ora abbiamo la possibilità di continuare così, con mezze misure che rinviano di qualche mese il problema, ma che rappresentano solo costosi passi verso l’inesorabile disgregazione del Vecchio continente. Oppure decidiamo di fare un passo avanti con chi ci sta. Senza arrivare agli Stati Uniti d’Europa, c’è molto da fare. Le tappe, neanche molto ambiziose, sono delineate nel rapporto dei cinque presidenti (Juncker, Tusk, Draghi, Dijsselbloem e Schulz) e rappresentano già una mediazione tra posizioni diverse. Il primo elemento che soprattutto l’Italia dovrebbe esigere è il completamento dell’Unione bancaria con uno schema di assicurazione comune dei depositi bancari e un sistema di risoluzione delle crisi a livello europeo. E poi aprire il dossier dell’unione fiscale, programmato per 2017-2025. Troppo tempo, ma già un gruppo di lavoro ad alto livello politico, darebbe l’idea che si fa sul serio. Il problema non sono le idee, ma la capacità di metterle in atto. Schäuble ha fatto intuire che la Grexit avrebbe favorito un processo di unione economica e politica ulteriore. Sarebbe interessante discutere dell’idea di Europa di Schäuble o della Merkel, magari al Parlamento europeo, come ha fatto la scorsa settimana Tsipras.
[**Video_box_2**]Oltre alla capacità, infine, ormai manca anche la volontà di procedere. Dopo il summit di domenica a chi è rimasto l’appetito per una maggiore integrazione? Non all’Europa del sud che teme l’egemonia tedesca, non all’Europa del nord che vede i propri risparmi finanziare i marxisti con la villa a Egina. Eppure l’appetito dovrebbe venire proprio dall’alternativa possibile: un’area monetaria meno tedesca ma più disciplinata, un’Europa in cui le decisioni non vengono più prese all’ultimo minuto, con il minimo sforzo necessario e con soluzioni ad hoc ma con strumenti di gestione dell’ordinario e dello straordinario prevedibili, non soggetti agli umori delle elezioni regionali di turno. Impossibile? Forse, ormai la situazione è degradata, ma tertium non datur. A non far morire la speranza è l’esempio dell’Unione bancaria, il passo avanti più rivoluzionario di questa crisi, fatto in soli sei mesi nonostante le complessità tecniche e politiche. A conferma che dove c’è la volontà c’è una via, come dice la Merkel. Anche perché l’alternativa è il declino punteggiato da mezze misure e piccoli aggiustamenti fino al vertice successivo.