Costamagna l'africano
Renzi schiera la Cdp anche nel Terzo mondo, ma crescono i dubbi
Roma. “Un governo donatore può pensare di avere contribuito all’edificazione di una centrale elettrica quando in realtà ha finanziato la costruzione di un bordello”. Già negli anni Quaranta del secolo scorso, Paul Rosenstein-Rodan, dirigente della Banca mondiale e uno dei pionieri dell’economia dello sviluppo, ragionava pubblicamente sui paradossi dei meccanismi di aiuto pubblico ai paesi poveri. Pur senza mettere in dubbio l’utilità del meccanismo stesso. Settant’anni dopo, di analisti scettici su questo approccio classico ne esistono invece molti e tutt’altro che di nicchia. Il che non ha impedito ieri al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in trasferta ad Addis Abeba (Etiopia) per la Terza conferenza internazionale sulla finanza per lo sviluppo delle Nazioni Unite, di annunciare che la Cassa depositi e prestiti (Cdp) sarà la nuova Istituzione finanziaria italiana per la cooperazione allo sviluppo. Dopo il recente cambio ai vertici della Cdp, con il banchiere Claudio Costamagna che ha sostituito Franco Bassanini alla presidenza, presto anche uno degli slogan più fortunati del polmone finanziario del paese che mobilita i risparmi postali dei cittadini, e cioè “Siamo l’Italia che investe nell’Italia”, potrebbe dunque necessitare di un restyling. Comunque ieri, mentre Bassanini su Twitter rivendicava la paternità dell’idea (“L’affidamento a Cdp della gestione dei fondi della cooperazione (mod. DEG/KfW) fu proposta da Pistelli e me”), dalla Farnesina sottolineavano “la necessità di valorizzare il concetto di ‘blending’ tra risorse pubbliche e private”.
I risultati della Terza conferenza internazionale sulla finanza per lo sviluppo, conclusasi ieri nella capitale dell’Etiopia, saranno scrutati con attenzione dagli osservatori. In un editoriale dell’Economist in edicola, per esempio, ci si chiede se “un vertice non troppo pubblicizzato in Africa potrà creare la strada per superare i dibattiti sterili sullo sviluppo”. Di summit blasonati sul tema, effettivamente, le agende internazionali sono affollate, tra l’appuntamento di settembre a New York sugli “obiettivi per uno sviluppo sostenibile” (sempre Onu) e quello di dicembre a Parigi per contrastare (ancora) il riscaldamento climatico. “Il principio guida – secondo il settimanale inglese – è che un processo di allontanamento dagli aiuti debba essere incoraggiato”. Per l’Economist, infatti, per decenni abbiamo sbagliato a valutare la serietà dei paesi più ricchi nel promuovere il benessere globale in base alla quantità di aiuti pubblici che questi paesi concedevano. “Questi aiuti hanno fornito solo una piccola quota dei finanziamenti necessari allo sviluppo, se confrontati con i soldi ottenuti dalla tassazione o dagli investitori privati. Una quota che sta ancora scendendo. I governi dei paesi in via di sviluppo stanno raccogliendo oltre 10 trilioni di dollari all’anno sul fronte domestico, facendo apparire come minuscoli i flussi di aiuti esterni (dai paesi più sviluppati, ndr) che sono pari a circa 140 miliardi di dollari”. La priorità, dunque, non dovrebbe essere quella di aggiungere un ennesimo cucchiaino per svuotare il mare della povertà e della deprivazione mondiale, quanto quello di far sì che il gettito fiscale medio dei paesi poveri (oggi minore del 15 per cento del pil di questi paesi, secondo l’Economist) possa salire fino alla media dei paesi più ricchi (34 per cento, con picchi sconsigliabili del 43 per cento in Italia). Meglio, per i paesi donatori e le istituzioni multilaterali, concentrarsi sulla creazione di un mercato più capiente e attraente per i bond destinati alle infrastrutture, magari attraverso l’offerta di garanzie.
Le tesi spiazzanti di un prof. di Princeton
Angus Deaton, economista scozzese con cattedra a Princeton, ha appena pubblicato anche in italiano uno dei saggi più completi sull’economia dello sviluppo, “La Grande fuga” (Mulino). Nell’ultimo capitolo, prende di petto quella che chiama “l’illusione degli aiuti”. Sostiene che l’approccio paternalistico del mondo occidentale si è ormai dimostrato inefficace nel migliore dei casi, se non addirittura dannoso. Salvo categorie specifiche e più direttamente controllabili, come gli aiuti in campo sanitario, sarebbe meglio astenersi: “Quello che oggi non dobbiamo fare è cercare di impedire che i paesi poveri facciano come noi abbiamo fatto in passato – scrive Deaton – Dobbiamo lasciare che i poveri se la cavino da soli e farci da parte. O, in termini più positivi, smettere di fare le cose che li stanno ostacolando”. Tesi tanto più forte perché non proviene da un marziano neoliberista, anzi. Dati alla mano, Deaton sostiene che l’intermediazione della politica, fino a qualche anno fa sottovalutata nella dottrina economica, ha distorto i flussi di aiuti sia nei paesi donatori sia in quelli riceventi. Sarà meglio dunque diffidare di chi, un po’ semplicisticamente, calcola che sarebbe possibile eliminare la povertà, definita dalla soglia di 1 dollaro al giorno, con un versamento quotidiano di 15 centesimi da parte di ciascun cittadino benestante del pianeta. Sono operazioni aritmetiche che discendono da quello che Deaton chiama “approccio idraulico” all’economia dello sviluppo, in base al quale “se si pompa acqua da una parte è inevitabile che questa sgorghi dall’altra”. Meglio controllare i tubi, per restare alla metafora: “Se la miseria dei paesi poveri non è il risultato della mancanza di risorse o opportunità, bensì di istituzioni appropriate, di governi incapaci o di politici corrotti, elargire denaro – in particolare ai governi di quei paesi – equivale a perpetuare e prolungare lo stato di miseria, non a porvi fine”. Non a caso è quasi sempre indimostrabile una correlazione statistica tra quantità di aiuti allo sviluppo e tasso di crescita, specie nell’Africa subsahariana.
Riflessioni forse spiazzanti ma utili, non soltanto nei corridoi della Cdp, controllata per l’80,1 per cento dal ministero dell’Economia.