Il gran muro di Berlino
Cosa si nasconde dietro lo scontro tra americani e tedeschi sul debito greco
Roma. Il Fondo monetario internazionale continua a battere sullo stesso tasto: la crisi greca non sarà risolta se non viene disinnescata la mina del debito. Non importa che la sua maturità sia già lunga e che i tassi siano contenuti (poco più del due per cento), la Grecia non è in grado di pagare gli interessi. Il Fmi non può concedere prestiti se non vengono restituiti, quindi il paese assistito dev’essere solvibile; quando non bastano gli interventi sui conti pubblici per aumentare l’avanzo primario (al netto degli interessi), occorre mettere mano a interventi strutturali sul debito che vanno decisi politicamente. In fondo, anche Wolfgang Schäuble comprende. Solo che i trattati impediscono di finanziare il singolo governo in difficoltà con i quattrini degli altri contribuenti, siccome il debito greco è quasi tutto nei portafogli degli altri stati e della Bce, secondo il ministro delle Finanze tedesco la soluzione più pulita è uscire temporaneamente dall’euro. Ma lo scontro sul debito non finisce con l’accordo di Bruxelles né con il voto dei parlamenti europei, anzi è destinato a diventare cruciale man mano che il negoziato per il terzo salvataggio della Grecia entrerà nei dettagli. La novità è che Mario Draghi è sceso in campo dettando l’agenda. “Non c’è dubbio – ha detto giovedì in conferenza stampa – che un alleggerimento del debito greco è necessario e credo che nessuno l’abbia messo in questione. Il problema è quale sia la miglior forma all’interno del nostro sistema giuridico. Credo che dovremmo concentrarci su questo punto nelle prossime settimane”. Cos’ha in mente?
Non esiste un modello al quale fare riferimento; non è solo la cancelliera Merkel a fare piangere la bambina greca. Il Fmi ha grande esperienza nei paesi in via di sviluppo. Ma quando negli anni 90 sono scoppiate le grandi crisi in Messico e in Asia, è dovuto intervenire direttamente il Tesoro americano. I paesi azionisti del Fmi spingono per un haircut che ricadrebbe soprattutto sull’Eurozona: meglio questo che vedere sparire i loro prestiti. Negli Stati Uniti prevale una posizione favorevole al taglio dei debiti, ma Washington non ha una ricetta da offrire: nessuno stato ha mai fatto default, tutti gli stati tranne il Vermont sono vincolati al pareggio di bilancio e sta a loro trovare le risorse se non riescono a pagare gli oneri o a restituire i prestiti, perché, in quanto sovrani, non sono sottoposti alle leggi sulla bancarotta che riguarda i privati (Chapter 11) o le municipalità (Chapter 9). La Federal Reserve non ha obbligo a intervenire, non esiste un fondo salva stati, e anche in America la discussione è aperta. La spinta degli Stati Uniti, dunque, è di politica fiscale: meno austerità più crescita. In Europa la proposta più articolata è venuta dal consiglio tedesco degli esperti economici: un fondo di riscatto che mette in comune la quota eccedente il 60 per cento del pil e stampa Eurobond. La proposta è agli atti della Commissione europea, ma Berlino e la Bundesbank hanno imposto garanzie reali e condizioni capestro. Gli Eurobond a Schäuble non sono mai andati giù fin da quando li proposero Juncker e Tremonti cinque anni fa. La Bce adesso deve trovare la sua formula. Il Financial Times nel passare in rassegna varie ipotesi, parla di un coinvolgimento dei privati. Si potrebbe mettere in campo un consorzio bancario di garanzia come nei fallimenti delle grandi imprese. Ma prima la Grecia deve tornare sul mercato. Draghi si è detto sicuro che avverrà, come e quando non lo sa nemmeno lui.