Non si tagliano le tasse senza rivoluzionare la Pubblica amministrazione
Meno di un mese è passato dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco dei contratti e degli stipendi del settore pubblico, con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza, ma non per il passato. Con quella sentenza, la Corte ha stabilito che d’ora in avanti (e non per il passato) i dipendenti pubblici tornino a percepire l’annuale adeguamento della retribuzione, rimasta invariata (nel corso di questi ultimi 5 anni) ai livelli del 2009. Annunciato ed inizialmente attuato dal governo Berlusconi nel 2010, il blocco prevedeva il temporaneo congelamento degli stipendi pubblici e dei contratti per il triennio 2011-2013. A confermare il blocco ci pensò nel dicembre 2011 il governo Monti con la legge cd. “Salva Italia”, prima, ed il governo Letta con la legge di stabilità 2014, poi, seguito a breve distanza, dal Governo Renzi che confermava il blocco fino al 31 dicembre 2015.
Secondo quanto osservato dall’Avvocatura dello Stato, evitando la retroattività (ovvero lo “scongelamento” dei pagamenti del periodo 2010-2015), la Corte Costituzionale ha scongiurato un potenziale buco nei conti pubblici di circa 35 miliardi, evitando così che una ulteriore tegola cadesse su un bilancio dello Stato non proprio florido. A parte questo la decisione della Corte Costituzionale rimane di grande interesse. Con essa, infatti, si è riapre, per l’ennesima volta, il dibattito sulla spesa pubblica italiana e sul suo processo di revisione nonché sulle tante mancate riforme con particolare riferimento alle riforme della pubblica amministrazione. Un dibattito che diventa ancora più opportuno se associato alla osservazione di quanto accaduto in tutti gli stati membri dell’Unione Europea a partire dalla grande recessione del 2008-2010 in materia di consolidamento fiscale e ristrutturazione del settore pubblico.
A livello europeo, quello della ristrutturazione ed efficientamento del settore pubblico (New Public Management) è un dibattito che risale agli anni ’80 e che, inizialmente, si è sviluppato nel Regno Unito di Margaret Thatcher. Nel corso degli anni ’90, il tema attecchì in tutta Europa ma, in modo particolare, nei paesi nordici ed in quelli fiscalmente più “responsabili”, i quali – proprio durante quegli anni – attuarono significative riforme del settore pubblico delle quali ancora oggi, in parte, beneficiano. A partire dai primi anni del secolo, ma soprattutto all’indomani della grave crisi economica e finanziaria del 2008 che ha colpito duramente i paesi più periferici dell’Eurozona e dell’Unione Europea, la strategia del New Public Management si è rapidamente diffusa in tutto il continente, diventando uno dei cardini delle politiche di consolidamento fiscale in tutti gli stati membri, ed una delle principali riforme di lungo-periodo richieste dalle istituzioni europee ai paesi maggiormente colpiti dalla recessione. La preoccupazione di un deficit pubblico sempre maggiore e la successiva esplosione del debito pubblico hanno fatto il resto. E la conseguente decisione da parte di tutti i 28 stati membri di salvaguardare la solidità delle finanze pubbliche nel medio e lungo periodo ha aggiunto nuova enfasi alla scelta di intervenire in termini strutturali sul funzionamento della pubblica amministrazione e sui livelli e sulle dinamiche del pubblico impiego. Al di là della impostazione strategica, è importante evidenziare come nonostante tutti i 28 stati membri abbiano promosso nel corso di questi ultimi anni significative riforme del settore pubblico i dati attualmente disponibili dimostrano che (a) tali interventi strutturali ed organizzativi non sono sempre stati incisivi, e (b) i singoli governi hanno adottato risposte spesso antitetiche ad un problema comune. Nel caso italiano, balza immediatamente agli occhi, ad esempio, che – nonostante che gli interventi di riorganizzazione del settore pubblico non siano mancati e con essi un discreto volume di tagli – tutti gli esecutivi che si sono succeduti a Palazzo Chigi negli ultimi sei/setti anni non sono stati in grado (principalmente a causa di una forte debolezza politica e della costante opposizione sindacale) di promuovere un serio programma di interventi in grado di per stimolare la produttività e l’efficienza dell’intero sistema amministrativo italiano. A partire dal 2008, infatti, i vari piani di riforma annunciati (ci riferiamo, in particolare, alle misure messe in atto dal governo Berlusconi tra il 2008 ed il 2011 e quelle previste dal governo Monti nel 2012) hanno riguardato molti ambiti del settore pubblico. Tra essi, l’introduzione di incentivi e premi in base al merito e la performance, il congelamento delle assunzioni, la revisione del ruolo ed aumento dei poteri disciplinari per i manager, un nuovo modello organizzativo ed una razionalizzazione della spesa.
Tuttavia, come viene messo in evidenza dal recente rapporto EuroFound 2014 (Figura 1), la scelta di fondo è rimasta incentrata sui tagli lineari e su una attitudine largamente difensiva (blocco del turnover, blocco della contrattazione) e, come tale, inevitabilmente incapace di incidere sui processi produttivi del comparto del pubblico impiego e sui suoi livelli di efficienza. La comparazione con i comportamenti prevalenti in altre grandi economie europee non merita commenti e la dice lunga sulla attitudine dei nostri ministri della Funzione pubblica a sentirsi rappresentanti del pubblico impiego piuttosto che del cittadino. Se da un lato, quindi, non è mancata la consapevolezza della serietà del problema, dall’altro, sembrano invece essere state assenti non solo la forza e la volontà politica ma soprattutto le strategie e le competenze necessarie per attuare serie riforme strutturali ed organizzative della pubblica amministrazione capaci di incidere sul modo stesso di essere della pubblica amministrazione e sul suo rapporto con i cittadini. In questo senso, le sentenze più o meno recenti della Corte costituzionale potranno piacere o non piacere ma non hanno fatto altro che sottolineare la debolezza strategica e la scarsa determinazione dei governi dell’ultimo decennio.
Il che, naturalmente, segnala come, al contrario di quanto accaduto negli altri paesi della periferia meridionale dell’Unione (fermo restando che la Grecia costituisce per molti versi un caso a parte) ed in molti altri stati membri fiscalmente più solidi come l’Austria, i Paesi Bassi ed il Regno Unito, i passi avanti fatti dal nostro paese in tema di consolidamento fiscale potrebbero essere più di facciata che sostanziali e passi indietro rimangano sempre possibili in un contesto caratterizzato da un incerto processo legislativo e da un pensiero strategico in tema di pubblica amministrazione che permane debole e quindi facilmente catturato dalle stesse strutture che si intenderebbe riformare quando non facilmente bloccato dalle rappresentanze sindacali. Non stupisce, in questo quadro, vedere l’Italia impegnata in una battaglia di retroguardia a difesa di un comparto pubblico i cui limiti sono noti a tutti piuttosto che impegnata a restituire ai cittadini la pubblica amministrazione che meriterebbero (rapporto EuroFound 2014, Figura 2), visto anche il carico fiscale che sopportano. Non stupisce che in questo quadro, a farsi notare siano oggi soprattutto i tentativi diretti o indiretti ripetuti di restituire al settore pubblico spazi che si pensava di aver attribuito, faticosamente, al settore privato.
Osservando il processo riformatore del settore pubblico a livello europeo, tre nazioni in particolare – il Regno Unito, l’Estonia (il paese EU economicamente più libero secondo l’Index of Economic Freedom) e la Spagna – ci possono permettere di puntualizzare cosa non sia stato fatto (e cosa si potrebbe fare – in teoria – nel corso dei prossimi anni) in Italia.
La prima considerazione riguarda sicuramente l’operato del governo di coalizione Cameron-Clegg. Secondo quanto riportato dal governo britannico, tra il 2010 e la fine del 2014, l’esecutivo di Westminster ha agito profondamente nell’opera di ristrutturazione del settore pubblico. Oltre al licenziamento (diretto o causato da politiche di pre-pensionamento) di oltre 490.000 dipendenti pubblici, il governo britannico è intervenuto con grande determinazione sull’efficientamento e sulla riduzione della spesa pubblica. Il pesante deficit pubblico è stato ridotto di 4 punti percentuali (da 9,7 per cento nel 2010 a 5,7 per cento nel 2014), oltre il 50 per cento dei tagli nel settore pubblico è stato “mirato”, i salari reali dei dipendenti pubblici sono stati congelati per due anni (ed in molti casi anche drasticamente ridotti), a partire dal 2012 è stato introdotto un tetto dell’1 per cento sull’aumento dei salari nell’intero settore pubblico, il livello di impiego è stato ridotto di oltre il 10 per cento, aziende di stato come la Royal Mail (equivalente delle “Poste Italiane”) sono state quasi interamente privatizzate e a livello locale molti servizi sono stati completamente esternalizzati.
La seconda considerazione riguarda invece l’Estonia, piccolo stato baltico entrato a far parte dell’Eurozona ed in continua crescita economica in presenza delle significative riforme effettuate dai governi Ansip II e Ansip III a partire dal 2009-2010 ed oggi continuate dal nuovo governo social-democratico guidato da Taavi Roivas. Nonostante il bassissimo debito pubblico (10,6 per cento nel 2014) ed un deficit pubblico quasi nullo, l’Estonia risulta essere uno dei migliori esempi europei di come si possa intervenire nel settore pubblico in modo molto deciso, accurato, senza minare la crescita economia (al contrario a sostegno di una costante crescita, stimata nel 2,3 per cento e 2,9 per cento, rispettivamente, nel 2015 e 2016) e dando prospettive al settore privato (la disoccupazione, ad esempio, è in calo dall’8,6 per cento del 2013 al 6,2 per cento del 2015). A partire dalla Grande Recessione, gli esecutivi guidati dal Primo ministro Andrus Ansip hanno messo in atto stringenti riforme di efficientamento del settore pubblico: i salari di tutti i dipendenti sono stati tagliati in modo proporzionale alla retribuzione già percepita tra il 10 per cento ed il 20 per cento, i bonus e gli incentivi relativi alla performance sono stati ridotti drasticamente, a partire dal 2009 il livello di assunzioni è stato «congelato» al fine di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state ridotte le pensioni più generose verso i dipendenti pubblici che percepivano più dei dipendenti ancora attivi, tutti i nuovi contratti sono stati rivisti, molti servizi sono stati esternalizzati o privatizzati ed una forte opera di ristrutturazione dei servizi è stata implementata al fine di integrare e far cooperare in modo più efficiente l’intero settore pubblico.
[**Video_box_2**]Infine, la terza considerazione prende come esempio la Spagna, nazione spesso accostata all’Italia durante il periodo più acuto della crisi. Anche in questo caso si può osservare come, soprattutto a partire dal 2010, il processo riformatore nel settore pubblico sia stato molto intenso e come, rispetto al nostro paese, l’esecutivo spagnolo sia intervenuto in materia di “consolidamento fiscale” in maniera molto più netta e con obiettivi ben precisi e molto ambiziosi. Oltre all’innalzamento dell’orario di lavoro (portato a 37,5 ore settimanali) e all’eliminazione di molti bonus legati alla performance, il governo Zapatero e poi quello Rajoy hanno ridotto coraggiosamente i giorni di malattia, alcuni diritti di anzianità e i periodi di ferie, hanno tagliato (del 5 per cento in media) i salari e congelato le retribuzioni per il periodo 2012-2013, sono intervenuti sulle pensioni bloccando gli aumenti di tutte le pensioni pubbliche ed innalzando lo scatto della pensione dai 64-65 anni ai 67, e hanno incominciato un’importante progetto di esternalizzazione (a livello regionale) del settore sanitario.
I paragoni con gli altri paesi europei potrebbero continuare a lungo, ma i brevi esempi riportati vogliono solamente mettere in risalto un dato di fatto molto importante: in attesa che la riforma della pubblica amministrazione oggi in discussione in Parlamento diventi legge dello Stato, il nostro paese ha, fino ad ora, cercato di evitare interventi strutturali e riforme organizzative vere nel comparto che di una vera e propria ristrutturazione avrebbe, invece, disperatamente bisogno. Si è scelto di intervenire senza farlo (il pasticcio avvenuto in tema di province parla da solo) o, semplicemente, di non farlo (talché, per esempio, la spesa sanitaria è lievitata dai 66miliardi di euro del 2000 ai 108 miliardi di euro del 2012) e quando si è scelto di intervenire – come nel caso della riforma in corso di approvazione – lo si è fatto come un atto dovuto, stando molto attenti a salvaguardare l’organizzazione di fondo del settore pubblico e la sue tante rendite di posizione e fissando fin dal primo momento un principio di fondo: la riforma della pubblica amministrazione è una riforma a costo zero (beninteso, per la pubblica amministrazione).
Giovanni Caccavello, Istituto Bruno Leoni