“Vi spiego il piano per tagliare le tasse”
Roma. “Non do ancora per scontato che l’Eurozona uscirà rafforzata dalle recenti turbolenze”. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, inizia così la sua conversazione con il Foglio. Chiarisce di non essere tra quanti già parlano al passato della crisi greca. “E’ da capire ancora se, e in quale direzione, si rafforzerà l’unione monetaria. Avvisaglie positive ci sono, come il rapporto dei cinque presidenti (Juncker, Draghi, Dijsselbloem, Tusk e Schulz, ndr). Nel dibattito coesistono misure di breve periodo, come il completamento dell’unione bancaria, e di lungo periodo, cioè forme di integrazione fiscale. Fermarsi ai primi aggiustamenti sarebbe un problema”. Ancora: “Esistono oggi due teorie sul funzionamento di un’unione monetaria. La prima è quella dell’‘azzardo morale’, cioè evitare che alcuni stati se ne approfittino e quindi fondare tutto su regole che impediscano comportamenti devianti. La seconda posizione è quella di una necessaria condivisione del rischio, su banche, politica fiscale o lavoro che sia. Se prevarrà la prima visione, l’unione monetaria diventerà più rigida”. Padoan preferisce la seconda scuola di pensiero, aggiunge che “un’unione bancaria pur completata non basterebbe”, perciò il governo italiano propone forme di risk sharing a partire da uno strumento comune all’Eurozona per assicurare un sussidio di disoccupazione. Sull’idea del collega tedesco Schäuble di un superministro delle Finanze per l’Eurozona, precisa: “Ulteriori cessioni di sovranità su alcuni ambiti della politica fiscale presuppongono la costituzione di un’autorità politica, democraticamente legittimata a decidere almeno su quegli ambiti che le sarebbero delegati”.
Il ministro riconosce che questo non è l’unico dibattito sul futuro dell’Eurozona avviato sull’onda della crisi greca. Potrebbe elencare due o tre ragioni che sconsigliano l’opzione dell’uscita di un paese come l’Italia dalla moneta unica? “Primo punto: l’uscita è la scelta della disperazione, e l’Italia non è un paese disperato. Ha di fronte a sé scelte nette da compiere, ma con full ownership su queste, cioè con la piena responsabilità nelle proprie mani. Secondo punto: la teoria economica si è sbizzarrita sugli scenari possibili dopo un’uscita dalla moneta unica, ma in realtà lì fuori è solo terra incognita. Certo non c’è soltanto la svalutazione monetaria e i suoi effetti sulla competitività, ma anche il cambiamento del rapporto tra debitori e creditori. Uno stato che uscisse perché troppo indebitato, con il debito che restasse in euro, vedrebbe aggravarsi la sua posizione. Così, siamo al terzo punto, si accelera la strada verso il default, un’altra tragedia non valutabile. E comunque ribadisco: un paese che scegliesse di uscire dall’euro pur avendo fatto aggiustamenti molto significativi si comporterebbe come una persona che, quasi raggiunta la vetta di una montagna, cioè la stabilità economica, decidesse all’improvviso di scendere a valle, vanificando tutto”.
Padoan, per rimanere alla metafora della scalata, ragiona in queste ore su come accorciare la distanza dalla vetta. Anche contrattando con i compagni di cordata europei. “E’ utile per questo una rivoluzione fiscale, pianificata su più anni, come annunciato dal presidente del Consiglio Renzi”. 45 miliardi di euro di tasse in meno dal 2014 al 2018: dopo gli 80 euro, via la tassa sulla prima casa (Tasi), Imu agricola e imbullonati dal 2016; poi Ires e Irap; infine Irpef più leggera dal 2018. Padoan dice che “da qui alla Legge di stabilità in autunno ci sarà il tempo per lavorare nel dettaglio sui numeri”. Sono solo tre però le strade possibili per approntare le coperture necessarie: aumentare altre tasse, ridurre in misura più importante del previsto la spesa pubblica, o aumentare l’indebitamento. Ministro, si sente di escludere a priori una di queste tre strade? “Stiamo valutando”. La “local tax” dunque sarà soltanto un nuovo nome per la Tasi? “No. Però è indubbio che cancellando la Tasi occorre pensare anche a come garantire le risorse per i comuni”. La revisione della spesa pubblica è d’obbligo, “considerate anche le clausole di salvaguardia da disinnescare”. Sul maggiore indebitamento, il discorso è ancora più complesso: “Esiste, dallo scorso gennaio, una clausola europea sulla flessibilità consentita sui conti pubblici nei paesi che fanno riforme. L’Italia ne ha già chiesto l’attivazione, e non a caso l’ha ottenuta. Nelle condizioni economiche e politiche date, credo infatti che il nostro ritmo di approvazione e implementazione di riforme non abbia pari in Europa. La riforma del lavoro e quella delle banche già in essere, poi quella della giustizia e della scuola approvate, quella della Pubblica amministrazione già incardinata”. Per Padoan sono riforme che “facciamo nel nostro interesse, rese ancora più necessarie da un’unione monetaria in cui gli aggiustamenti tendono a scaricarsi sul mercato del lavoro”. Porte aperte da Bruxelles, dunque, per tagliare le tasse in deficit? “I tagli delle tasse devono essere credibili, finanziati in tutto o in parte con tagli di spesa. Le riforme consentono di beneficiare della flessibilità”. L’impegno a ridurre il debito dobbiamo rispettarlo; ma se quest’anno il rapporto deficit/pil sarà del 2,6 per cento, e l’anno prossimo in teoria deve raggiungere l’1,8 per cento, fermarsi nel mezzo garantirebbe più respiro al taglio di tasse. I lunghi negoziati con Atene non avranno irrigidito la Commissione Ue e l’azionista di riferimento, cioè Berlino, scoraggiando tutto quello che assomiglia a una concessione? “Grecia o non Grecia, da 12 mesi a questa parte è completamente cambiato il modo in cui Bruxelles guarda al nostro paese. Siamo diventati un esempio, è passato il momento in cui si discuteva del decimale di aggiustamento in più o in meno”. Infine il ministro non esclude “il maggior gettito fiscale che potrà discendere da una crescita maggiore del previsto in ragione dello sgravio”. Le minori tasse che si ripagano almeno in parte da sole: ammetterà che non è cosa da poco, almeno per un governo di sinistra, rispolverare la curva di Laffer o quella che un tempo veniva chiamata con disprezzo voodoo economics: “Si può chiamare in causa Laffer. Ma anche Keynes e le minori tasse che lasciano più reddito nelle mani dei cittadini, agendo così da stimolo attraverso il moltiplicatore. Preferisco ragionare sugli effetti concreti di questa rivoluzione. Di fede me ne basta una”, sorride il ministro. “Quella romanista”, sussurra un suo collaboratore. Apre magari anche alla flat tax, allora? “L’aliquota unica ha funzionato quando è stata introdotta in paesi appena usciti dal blocco sovietico e da un’economia pianificata. Sostituirla al nostro sistema sarebbe molto più difficile, con effetti redistributivi tutti da vedere. Mi pare una strada interessante, ma impraticabile”.
[**Video_box_2**]Comunque, che le coperture per gli annunci renziani ci siano o meno, da esponenti dell’establishment di sinistra, come Visco e Bersani piovono già critiche: dicono che state scimmiottando la destra berlusconiana e che state dimenticando la lotta all’evasione fiscale. “Che l’Italia abbia una pressione fiscale tra le più elevate in Europa è noto. Economicamente è un non issue, e il governo crede che questo sia uno degli ostacoli principali agli investimenti e quindi a crescita e creazione di lavoro. Questo paese si merita meno tasse”. Ergo, “nel migliore dei casi, quelle di queste ore sono polemiche politiche. Inoltre non capisco perché alleviare le tasse e contrastare l’evasione sarebbero strategie in conflitto tra loro, invece sono complementari!”. Nel 2013, da capoeconomista dell’Ocse, Padoan diceva che l’Imu sarebbe stata “l’ultima tassa da tagliare per stimolare la crescita”; oggi, da ministro, Padoan comincia abolendo la Tasi (ex Imu): “Da economista credo che ridurre le tasse sul lavoro abbia un effetto più immediato sulla crescita. Infatti il governo ha cominciato con gli 80 euro e la riduzione dell’Irap. Né sottovaluto quello che altri definiscono ‘trovata elettorale’ e che invece mi pare un messaggio politico forte, uno sgravio diffuso che può avere effetti non trascurabili nel trasmettere un senso di fiducia ai cittadini”. Qui ci cova del berlusconismo, diranno alcuni: “Nei vecchi dibattiti americani si diceva che il Partito democratico voleva tassare di più per spendere di più, mentre i repubblicani volevano spendere di meno per tassare di meno”. Il Partito democratico italiano la pensa come i repubblicani? “L’Italia non è gli Stati Uniti di allora. Nelle condizioni attuali, poi, è legittimo un cambio di passo rispetto a una tradizione passata della sinistra, una tradizione che appare un po’ inaridita”.