La versione di Ignazio Visco
“L’euro senza uno stato non è sostenibile”. E poi il dopo Grecia, le tasse e le ragioni (anche culturali) di una ripresa ancora lenta. “Una moneta non può rimanere senza stato, punto”. Per convincere della solidità della costruzione europea non basta l’unione bancaria. Intervista col Governatore di Bankitalia.
Roma. Ignazio Visco incontra il Foglio quando si è appena conclusa la conference call dei Governatori del Consiglio direttivo della Banca centrale europea. L’Istituto presieduto da Mario Draghi, il suo predecessore al vertice della Banca d’Italia, ha deciso di alzare nuovamente, a 900 milioni di euro, i fondi della liquidità d’emergenza (Ela) per le banche greche. La conversazione con il Governatore, dunque, non può che iniziare dallo stato attuale dell’unione monetaria, per poi arrivare a tutto il resto: l’euro come moneta senza stato, la lezione per l’Italia che arriva dalla Grecia, i criteri giusti per ragionare sul taglio delle tasse e sulla revisione della spesa pubblica e gli indicatori adatti da osservare per capire la direzione imboccata dal nostro paese. Cominciamo subito da un tema che il Governatore non ha ancora affrontato pubblicamente: una valutazione rispetto a quanto accaduto negli ultimi sei mesi in Europa.
Domanda: l’area dell’euro esce indebolita o rafforzata dalla prova greca? “Per ora, più consapevole – si limita a dire Visco – L’integrazione europea ha proceduto storicamente per fasi. Dai disastri del Dopoguerra è cresciuta con l’aspirazione della pace, della giustizia, della libertà. A lungo abbiamo concentrato l’attenzione sulla capacità di sviluppo economico dell’area che, anche grazie all’integrazione stessa, è oggi elevata. Prima è venuto il mercato interno, poi la moneta unica. E già al momento della nascita dell’euro Tommaso Padoa-Schioppa – di cui il Governatore conserva uno degli ultimi libri sulla scrivania nell’ufficio di Via Nazionale – sosteneva che una moneta senza stato non può essere sostenibile a lungo”. Un insegnamento ancora valido, secondo il Governatore: “Se l’integrazione è un processo, l’unione politica dev’esserne l’esito. Nelle tappe intermedie s’incontrano rischi, e oggi il rischio è costituito dalla diffidenza tra nazioni che è emersa prepotentemente negli ultimi mesi”. Visco precisa di riferirsi tanto alla crisi greca, quanto alla possibilità di un Brexit del Regno Unito. E quanto ad Atene, lo sboom finanziario è stato solo il detonatore di una situazione accumulata negli anni, “con una crescita economica non sostenuta da un aumento della produttività, con una spesa al di là delle proprie possibilità e il conseguente crescente squilibrio di bilancio”. Adesso, “la questione del debito greco andrà affrontata, anche allungandone ulteriormente nel tempo le scadenze, ma è evidente che questo non sarà sufficiente a superare le difficoltà del paese. Il costo del debito per la Grecia è già basso, il rimborso è diluito nel tempo”. La conclusione che il Governatore trae è la seguente: “Una moneta non può rimanere senza stato, punto”. Per convincere della solidità della costruzione europea non basta l’unione bancaria: “All’apice della crisi del debito sovrano le tensioni riflettevano non solo i rischi di default dei singoli stati, ma anche la preoccupazione per un'eventuale 'rottura' della moneta unica. Molto è stato fatto da allora, ma serve di più, bisogna pensare a introdurre nell’area dell’euro elementi formativi di uno stato”. Il riferimento di Visco è “all’unione politica, che non può che passare attraverso la tappa intermedia dell’unione di bilancio”. Il Governatore non nomina gli Eurobond ma cita piuttosto gli studi di alcuni ricercatori di Palazzo Koch sulla possibilità di mettere in comune una parte dell’assicurazione contro la disoccupazione e dei trattamenti previdenziali.
Necessaria armonizzazione della giustizia
“A voler guardare ancora più in là, c’è la questione dell’armonizzazione dei sistemi nazionali della giustizia. O, se volete, bisognerebbe riflettere sulla tempistica dei vari voti nazionali che si potrebbe uniformare per evitare quel clima da campagna elettorale permanente che si respira in Europa. Senza accantonare, poi, l’idea di una difesa unica. E se mi consentite la provocazione, vi direi che oggi per salvaguardare l’integrazione europea una difesa unica sarebbe persino più efficace, per certi versi, di una moneta unica”. Se non sono gli Stati Uniti d’Europa, poco ci manca: “Per fare tutto questo i leader dovrebbero affrontare costi politici importanti ma ne riceverebbero benefici altrettanto importanti. Il senso dell’Europa in fondo è questo: accettare di ridurre la sovranità nazionale in cambio di condivisione delle responsabilità”.
Le opinioni pubbliche però scalpitano, ne è un esempio la retorica anti banche e anti finanza che ha colonizzato negli ultimi tempi gran parte del dibattito mediatico. “Il Premio Nobel Amartya Sen giustamente si è chiesto: ‘Come è possibile che una attività tanto utile come la finanza sia stata giudicata così dubbia sotto il profilo etico?”. Solone che nella Grecia antica proibisce il credito, Gesù che caccia i mercanti dal tempio, di esempi Visco ne cita a iosa, poi si ferma: “Episodi, comportamenti censurabili ci sono stati, ma la finanza ben regolata serve. Trasferisce risorse nello spazio e nel tempo, dunque ha un compito vitale per tutti noi”. E poi sulla situazione delle banche greche, aggiunge: “Si dice, tra le altre cose, che gli aiuti europei sono andati a sostituire i crediti privati. In parte è vero, ma è anche servito a evitare gravi conseguenze per la stabilità finanziaria della Grecia e dell’area”. Le Banche centrali europee sono ovviamente consapevoli dell’importanza del sistema finanziario, perciò, continua Visco, “dall’inizio dell’anno fino alla settimana pre-referendum, l’Eurosistema ha dato 90 miliardi di liquidità alle banche greche; a questi si aggiungono altri 40 miliardi di liquidità concessa nelle altre operazioni di rifinanziamento. In tutto 130 miliardi, quasi quanto tre quarti del pil greco”.
Krugman e le spinte anti euro
Sulla strada dell’integrazione politica s’incontreranno sempre più spesso critiche severe anche da opinionisti quotati, come un altro Premio Nobel, Paul Krugman. Governatore, nota un accanimento anti euro da parte dei liberal anglosassoni? “Queste critiche non provengono soltanto dai liberal. C’è Krugman, ma c’è anche Martin Feldstein. Sono critiche non di oggi, mosse anche prima dell’avvio della moneta unica, e in ultima analisi riconducibili alla tesi secondo cui le economie europee hanno fatto male a privarsi dello strumento del cambio. Si potrebbe rispondere con i vantaggi che discendono dalla moneta unica, ad esempio per gli scambi commerciali all’interno dell’area, ma soprattutto osservo che lo stesso Krugman riconosce, nelle sue ricerche, che nel lungo periodo quello che conta è il cambio reale, non quello nominale. E il cambio reale dipende dalla produttività di un paese”.
Dall’Europa arriviamo dunque al nostro paese e il governatore comincia da qui: “L’Italia è una realtà diversissima dalla Grecia. Ma rimane una lezione quella di dover aumentare la produttività”. Quando deve spiegare ai suoi interlocutori internazionali il perché della nostra perdurante lentezza nella ripresa, come risponde? “In sintesi: per arretratezza tecnologica e per il contesto relativamente sfavorevole in cui operano le imprese, a cui contribuisce in maniera determinante ma non esclusiva la corruzione”. La prima: “Quando era noto che avremmo perso il controllo del cambio, con annessa possibilità di svalutazioni competitive, le imprese avrebbero dovuto investire di più sulla propria produttività. Invece, in media, sono rimaste indietro nell’uso delle tecnologie, non solo di quelle dell’informazione e non solo nella manifattura. Ancora oggi, l’Italia è indietro nella spesa per la ricerca, soprattutto per la ricerca finanziata dai privati”.
Un inciso: Visco non è tra quanti credono alla teoria della “stagnazione secolare”, in voga soprattutto in America: “Semplicemente perché ritengo che esistano ancora capacità inesplorate e molto elevate di far crescere la produttività, pure negli Stati Uniti”. Sul contesto sfavorevole alle imprese, Visco cita per primo il caso della giustizia civile, “troppo lenta e farraginosa”, poi la qualità dei servizi offerti dalla Pubblica amministrazione, quindi la stabilità e la chiarezza delle regole. “La Pa ha innanzitutto un problema organizzativo. Semplificare le regole che si sono andate stratificando farebbe già tanto”. La spending review aiuterebbe, ma continua ad arenarsi con qualsiasi governo, non trova? “La revisione della spesa ha senso se non equivale soltanto a tagliare la spesa – dice Visco – Non dimentichiamo infatti che uno stato di qualità richiede un capitale umano di maggiore qualità. Servono investimenti su scuola, università, ricerca”. E per una sana spending review, “dalle corrette analisi di tipo ‘macro’ si deve passare al dettaglio ‘micro’. A quel punto è necessario mettere in rilievo le priorità, identificando i singoli uffici e meccanismi che non funzionano a dovere. Rendendo più produttiva invece la spesa che c’è”. Le ultime due Considerazioni finali di Visco, secondo molti osservatori, hanno dedicato ampio spazio al ruolo della “domanda”, dopo anni di insistenza sulle riforme dal lato dell’offerta. Chiediamo al Governatore un giudizio su questa lettura: “Non vedo contraddizione tra i due approcci – dice Visco – Dopo una giusta insistenza sulle grandi riforme necessarie per aggredire i problemi di cui abbiamo appena parlato, ho voluto sottolineare che sono necessari gli investimenti proprio per cogliere le opportunità create dalle riforme. Che non sono state poche in questi ultimi cinque anni, a partire da quella delle pensioni, per finire a quelle del mercato del lavoro. Se per quindici anni la produttività complessiva del paese è stagnante, non dipende sicuramente dalla domanda. E pensare che qualcuno mi rimproverò quando anni fa scrissi del rischio di ‘declino’ della nostra economia”.
Poi però, prosegue il ragionamento di Visco, “se non c’è domanda non c’è reddito disponibile e non ripartono i consumi. A loro volta gli investimenti dipendono dalla domanda attesa per il futuro”. Diminuire le tasse, meglio ancora se con misure shock come quelle annunciate dal governo in questi giorni, potrebbe rilanciare la domanda? Il Governatore premette di non voler commentare provvedimenti che ancora non conosce. Perciò fa solo un ragionamento più generale: “Quando si riducono le tasse ci sono due considerazioni basilari da compiere. Le tasse servono a pagare servizi: se si riducono, come si pagheranno questi servizi? Inoltre le tasse sono necessarie a mantenere l’ordine dei conti pubblici, a non incorrere in ulteriore deficit: se si tagliano, sarà necessario trovare le necessarie coperture, anche per non turbare le condizioni del mercato del debito sovrano”. L’abolizione dell’imposta sulla casa? “Quale delle tante imposte che vi gravano?”, replica provocatorio Visco. “In generale la casa è un asset che, a livello internazionale, viene normalmente tassato. Perché è un cespite che non si sposta, e perché la casa solitamente sfrutta servizi pubblici basilari che devono essere finanziati”. L’urgenza, piuttosto, il Governatore la rintraccia in una necessaria “semplificazione” per i contribuenti, a partire dalla “denuncia dei redditi”.
Il pil italiano ha smesso di affondare in terreno negativo. Visco però, dal suo osservatorio privilegiato, assieme ai suoi collaboratori scruta l’andamento di tre indicatori utili a valutare la resilienza di una ripresa dell’economia, cioè investimenti, credito e occupazione. “Durante la crisi gli investimenti sono caduti di oltre un quarto rispetto ai livelli del 2007. Il segno ‘più’ del primo trimestre, per questo, è molto rassicurante. E le intenzioni delle imprese restano positive”. Sul credito, Visco fa la distinzione tra “l’erogazione di nuovi crediti, che sta migliorando” e “il totale dei crediti, inclusi quelli in essere, che sono ancora in discesa”.
L’Italia nel 2011 è state investita da un forte credit crunch, Visco non lo nega, e finché non vedrà un segno positivo anche qui non starà tranquillo: “Con il Quantitative easing della Bce, però, i tassi sul credito alle imprese si sono ridotti. Adesso si sta vedendo anche per le piccole imprese”.
[**Video_box_2**]C’è chi sostiene che senza la costituzione di una bad bank che aiuti gli istituti a liberarsi dei crediti deteriorati, il settore non si riprenderà mai del tutto: “Bad bank è espressione imprecisa. L’Italia sta lavorando alla costituzione di una società che gestisca crediti deteriorati, visto che nessuna delle banche italiane è stata a rischio di fallimento come quelle di altri paesi che hanno necessitato di una bad bank. Abbiamo avuto una esperienza al riguardo con la Sga nel 1996 per il Banco di Napoli. In ogni caso non si tratta di un regalo alle banche. Senza una soluzione per i prestiti deteriorati, però, è più difficile liberare risorse per il credito”. Bruxelles continua a mostrare un volto arcigno, nota il Foglio, e viene il dubbio che Roma si sia mossa tardi: “Siamo più vicini di sei mesi fa a un’intesa. Nelle discussioni con la direzione Concorrenza della Commissione va sottolineato che non si tratta di aiuti di stato”. Intanto però, sulle stesse banche, si esercita la pressione dei regolatori nazionali ed europei affinché accrescano la loro dotazione di capitale. Non solo: in Europa si discute di assegnare un certo rischio di credito ai titoli di stato, così spesso presenti nei bilanci degli istituti: “Negli ultimi quattro, cinque anni, l’aumento di capitale delle banche italiane è stato notevole. Il rapporto tra capitale e attivo è aumentato nettamente. Ed è aumentata anche la qualità del capitale a disposizione. Sui titoli di stato, la crisi greca ha dimostrato che effettivamente non sono risk free, come ripete sempre il mio collega tedesco Jens Weidmann. Vero, appunto. Ora però si apre il dibattito: chi valuta il rischio di questi titoli? Le agenzie di rating? E con quale tempistica introduciamo queste valutazioni del rischio? Oggi è il momento migliore per farlo?”.
Alla fine della conversazione, riavvolgendo il nastro dei primi quattro anni passati a Via Nazionale da Governatore, chiediamo a Visco di ragionare su quello che ci sembra essere un punto centrale della nostra epoca: la possibilità o meno per i governi di diverso colore politico di poter avere una propria specifica autonomia rispetto alle scelte di politica economica. Su queste scelte è un errore dividersi ancora tra destra e sinistra? “In generale mi verrebbe da dire che, specie in periodi in cui l’economia va fatta ripartire, non esistono direzioni di destra e di sinistra, esistono solo direzioni di buon senso”.