#facciamocomeRajoy
La Spagna è diventata un esempio riformatore. Non solo a Bruxelles
Roma. “Facciamo come” è il nome di un divertente sito online, o meglio, di un “generatore automatico di supercazzole esterofile e piddine”, come scrivono gli autori. E’ il modo, per alcuni internauti tendenzialmente euroscettici, di ironizzare sui numerosi appelli che si fanno in Italia a seguire la strada delle riforme percorsa da altri paesi. Adesso però, con buona pace dei suddetti burloni, l’appello a “fare come la Spagna” sta diventando un mantra anche al di fuori dei confini italiani e dei freddi uffici brussellesi. Semplicemente perché l’economia di Madrid, grazie al percorso riformatore guidato dal premier conservatore Mariano Rajoy fin dalla sua elezione nel 2011, sta registrando una ripresa di tutto rispetto. Quest’anno il pil iberico crescerà del 3,3 per cento, quasi un punto percentuale in più delle previsioni di inizio anno e più del quadruplo dell’Italia, dopodiché s’ingrandirà allo stesso ritmo il prossimo anno.
Né il cambiamento è soltanto macroeconomico, a giudicare per esempio da un intervento pubblicato ieri sul Financial Times a firma Karina Robinson, ceo della società di consulenza finanziaria Robinson Hambro. La Robinson, ragionando sul problema della produttività stagnante del Regno Unito, prima consiglia al governo Cameron di “abolire il mese di agosto”, e assieme ad esso tutte le inutili serrate vacanziere anche in alcuni comparti del settore privato. Poi invita gli “amici inglesi” a smetterla con il cliché “della siesta e di altre pratiche spagnole”, visto che “la siesta da tempo non esiste più”, e considerato che “grazie alla moltitudine di riforme approvate dall’attuale governo, l’aumento impressionante della produttività di quel paese potrebbe continuare a lungo”. Facciamo come la Spagna, insomma. “Ma il tasso di disoccupazione spagnolo è ancora altissimo!”, è una delle risposte tipiche. Vero, è al 22,3 per cento. Ma oltre alle solite incongruenze statistiche rispetto all’Italia (in Spagna l’incentivo a dichiarare il proprio status di disoccupato è maggiore, vista la presenza di sussidi più generosi), è la tendenza dell’indicatore che fa la differenza: nel 2013 era stato raggiunto il picco del numero di persone senza lavoro, il 27,2 per cento; l’attuale 22,3 per cento, invece, è il punto più basso dalla fine del 2011. Ed equivale a 514 mila posti di lavoro in più rispetto a un anno fa. Il terziario ha un ruolo trainante: secondo ricerche di Datastream e Amundi, nel 2008 il 70 per cento degli occupati lavorava nei servizi, mentre nel 2014 la percentuale è salita al 78 per cento.
[**Video_box_2**]Il turismo corre, Ubs ha appena rivisto al rialzo le previsioni di crescita per le grandi catene alberghiere (Nh e Melia). Ma la riforma del mercato del lavoro, incentivando radicalmente la contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale, in tandem con continui sgravi fiscali, ha attratto anche gli investimenti di aziende manifatturiere straniere, per esempio nel settore automotive. Lo scorso anno le esportazioni hanno costituito il 35 per cento del pil, grazie alla vendita di prodotti ad alto valore aggiunto (auto, macchinari, farmaci). Così tra aprile e giugno, nell’industria i disoccupati sono 30.800 in meno. Come ha spiegato qualche settimana fa una dirigente del ministro delle Finanze iberico, Carla Díaz Álvarez de Toledo – invitata a un incontro a porte chiuse dal ministro delle Finanze tedesco Schäuble – grazie alla maggiore flessibilità “la creazione di posti di lavoro ritarda solo di un trimestre rispetto alla crescita del pil, invece che quattro trimestri come negli anni 90”.